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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/10/2002 - Comments (0)
 
 
 
Liars, Mum, My Dear Killer, Nasten'ka, Peter Rehberg, Phil Ranelin, Queens Of The Stone Age, Red Hot Chili Peppers, Ronin, Savoy Grand, The Mars Volta, The Fog In The Shell, The Streets.

Liars, Mum, My Dear Killer, Nasten'ka, Peter Rehberg, Phil Ranelin, Queens Of The Stone Age, Red Hot Chili Peppers, Ronin, Savoy Grand, The Mars Volta, The Fog In The Shell, The Streets.

 
 

LIARS/They Threw Us All In A Trench.../Mute/Blast First

If The Strokes are NYC's pop idol, then The Liars are here to kill your idols. – tratto dalla webzine Totallywired (www.totallywired.co.uk). Dopo l’exploit degli Strokes New York inizia a pullulare di nomi nuovi e band all’esordio, il cui minimo comune denominatore è il suono lo-fi, grezzo, veloce, rock’n’roll, sovrastato da una voce intensa e regolarmente filtrata. Una sorta di genere a se stante, che potremo ribattezzare neo-garage. Gli Yeah Yeah Yeahs prima e i Liars poi rappresentano un sunto dettagliato di ciò che è accaduto a New York in questo primo anno del dopo-torri: sale la tensione, tremano i nervi, agitazione, eccitazione, agitazione. Ipotesi scontata e forse un po’ riduttiva la mia, fatto sta che le due band si pongono sulla stessa falsa riga di isteria, intensità e grinta punk americana, qualcosa di fortemente sentito in questi ultimi mesi. Ma se gli YYY cercano ispirazione nelle salde radici del rock della mela (Velvet Underground, Mars, Patti Smith), i Liars guardano oltreoceano, memori della lezione dei Gang of Four e di tutto il sound del periodo post-punk. Se il suono poi è tipicamente neo-garage, il genere viene arricchito dai nostri per via di suoni cosmici dal gusto psych (il lungo loop finale di “This Dust Made That Mud”), rumorismi assortiti (The Garden Was Crowded and Out), puntatine in territorio hip hop (quello dei Beastie Boys però, come in Loose Nuts on the Veladrome), giri dub minimali (Nothing is ever lost…), e chitarre funky da fare invidia a Pop Group e Minutemen (We live on NE of Compton). Tante idee insomma, anche se probabilmente molto è dovuto all’ottimo lavoro di produzione di Steve Revitte (Beastie Boys e John Spencer Blues Explosion), impressionante se si pensa che è stato realizzato in soli due giorni. Concludo allora con un’altra citazione, questa volta dalla webzine StankyGroove: “Liars bring together everything in New York’s art rock scene that Blonde Redhead couldn’t, use keyboards and loops better than Milemarker, jam it right against the politics of Rage Against The Machine, and harmonize the poetry of Sonic Youth into one cohesive album that will be hailed as one of the best of 2002” – Alan Haworth

BakuniM

MUM/Finally we are no one/Fat Cat

Forse i Múm affermano di non essere nessuno semplicemente per il fatto che sognano di restare per tutta la vita bambini, sapendo di non esserlo già più. Gunnar Örn Tynes, Örvar Åóreyjarson Smárason e le gemelle Kristín Anna e Gya Valtysdóttir corrono insieme nell’aria gelida d’Islanda (“Green grass of tunnel”) e giocano spensierati prendendosi per mano in un tenero girotondo (“We have a map of the piano”). Al calare dell’oscurità è tempo di far ritorno a casa: le gambe affondano nella neve alta (“K/half noise”) ed un vento folktronico soffia sui volti pallidi dei quattro (“Don’t be afraid, you have just got your eyes closed”). Tra le pareti domestiche e davanti al focolare crepitante (“I can’t feel my hand any more, it’s alright, sleep still”) i Múm si divertono a far rotolare sul pavimento biglie elettroniche, accompagnati dalla musica immaginaria di fisarmonica, violoncello, basso, chitarre e sintetizzatori. E quando le ombre sul soffitto si allungano sinistre (“Now there’s that fear again”) i Múm scongiurano la paura sfogliando vecchi album di fotografie e raccontandosi favole di pop metatemporale (“The land between solar systems”). Favole così belle che vorresti anche tu tornare bambino, almeno per un giorno.

Guido Gambacorta

MY DEAR KILLER/Clinical Shyness/Under My Bed

Stefano Santabarbara è una specie di giovane scienziato nerd che ora vive a Londra e lavora ad un progetto militare segretissimo di cui perderà il controllo con conseguenze inimmaginabili per la vita sul nostro pianeta. Dopo ogni intensa giornata passata in laboratorio lottando con immensi funghi a tentacoli che tentano di fuggire, Stefano torna nel suo buio appartamento e compone queste tristi canzoni, tristi perché lui sa quanto la fine sia vicina. Su questo cd troverete arpeggi di chitarra elettrica filtrata con i distorsori che l'autore si è costruito da sé, e una voce ispiratissima (tenuta a volume molto basso) che canta in inglese di malora e disperazione; può ricordare un Tim Buckley o un Nick Drake, ma elettrico, anzi "analogico" come dice lui. La versione definitiva sarà probabilmente diversa e più lunga di questa "advanced demo edition" che mi hanno dato, perciò vi consiglio di aspettare che il cd venga stampato prima di rotolarci tutti insieme nella tristezza irreversibile.

ONQ

NASTEN'KA/1995-1999/Under My Bed

Raccolta / ristampa delle gesta di questo gruppo milanese del secolo scorso; i suoni possono talvolta ricordare ("Unwhitened" e "Bollo" sfiorano il plagio) i Sonic Youth di Daydream Nation, quella comunque è l'intenzione. In realtà, specialmente per la voce femminile praticamente identica, tutto suona straordinariamente simile ai Linus (mi perdonino coloro che non hanno "Yougli" in casa, e quindi non sanno di cosa parlo). Delle 9 tracce che compongono il disco, le prime 5 sono registrate in studio con suoni assolutamente rispettabili, le 4 che restano sono invece registrate con un walkman, ed attrarranno dolcemente il vostro dito verso il pulsante "stop". Direi un ottimo esordio postumo, è un peccato saperli sciolti e dimenticati. Consigliato agli orfani della Elemental records.

ONQ

PETER REHBERG/Showroomdummies/Mego

Colonna sonora dell’omonima performance di teatro-danza, realizzata da uno dei musicisti più prolifici ed innovativi di casa mego per la compagnia francese di danza DACM. Tema della rappresentazione: “Come uno potrebbe eventualmente scivolare dalla sottomissione alla resistenza passiva”. Essendo l’ascolto scisso dal contesto di produzione e fruizione originari, ci si può muovere lungo il percorso solo attraverso sensazioni e rappresentazioni. La facilità evocativa e la ricchezza immaginifica che si riscontrano nel tentare questa via, sono forse il miglior segno della riuscita di questo lavoro. Il senso di iniziale smarrimento ed incertezza che accompagnano le progressive sovrapposizioni di battute, riverberi e microscariche tipiche del “marchio Rehberg”, lasciano gradatamente spazio al gusto della esplorazione e del disvelamento, scandite da aperture ambient del tutto inusuali, in cui alle geometriche nervofrequenze si sostituiscono avvolgenti sonorità informi. Un percorso che tuttavia ha ben poco di mistico, se è vero come è vero che ci si sente progressivamente catapultati in uno scenario alla Clockwork Orange, senza tuttavia la forza e la volontà per gettarsi dalla finestra.

Roberto Baldi

PHIL RANELIN/Remixes/Hefty

Ci può essere un team di dj e produttori che remixano i materiali più eterogenei dando con la loro interpretazione unitarietà organica ad una raccolta che altrimenti sarebbe solo raccogliticcia (vedi Jazzanova e /o Terranova e/o Kruder & Dorfmeister) o possono esserci vari artisti che remixano brani di un singolo artista per vedere cosa riescono a fare partendo magari da frammenti su cui lavorare e creare qualcosa di diverso e interessante. Poi ci sono vari personaggi che magari fanno un bell’album e non contenti poi fanno anche un bel remix dell’album stesso, vedi il caso di Etienne De Crecy con Tempovision. Ci sono addirittura le dubbie intenzioni e le dubbie riuscite di gente come Tosca che riempiono un solo album di remix di un pezzo estratto da un ottimo album come Suzuky (già remixato interamente: Suzuky In dub). Poi ci sono band tipo la John spencer blues explosion che si fanno registrare i pezzi da Albini e se li fanno remixare da Moby perché a loro piace far vedere quanto sono sboccati, ‘sti rockettari. Poi ci sono dei personaggi, supportati dalle intuizioni di agenti delle case discografiche, che mettono le mani su successi del passato ancora freschi o del presente ancora fresco e li rispolverano in salsa aggiornata alla moda corrente e le ripropinano come hit, grandi successi. Poi ci sono quelli che fanno le versioni remix commerciali da discoteca di brani rock trash tipo Sweet child of mine dei Guns ‘n roses: troppo scarso. Oppure quelli che remixano Cerco un centro di gravità permanente: troppo triste. Poi c’è gente come Vasco Rossi che dopo Nessun pericolo per te fece uscire un interessante minialbum di remixes. Poi c’erano quelli che campionavano e remixavano James Brown ed era gente seria che si inventava l’hip hop. Poi c’erano quelli che facevano dei brani che al tempo potevano già sembrare dei remixes. Tipo New Order o Disco inferno o l’ultimo Battisti più futuribile. Poi c’è stata gente come i Cure che ad un certo punto si sono fatti il loro bell’album di propri greatest hits ben ben remixati. Poi ci sono anche io che sto teorizzando da tempo un’ennesima versione (ma multipla) cover remix di Satisfaction con al posto delle chitarre elettrificate le peggio distorsioni che trovo sparse per il mondo. Poi c’è Brinkmann che remixa i solchi chiusi dei vinili anche dal vivo fino alle cinque di mattina ma quello ha un altro passo e non c’è niente da dire. Poi c’è chi remixa i cd ma allora i puristi storcono il naso. Ah dimenticavo i dj che mixano per far ballare senza interruzione, ma quello è mixare e non remixare. Insomma quella tecnica artistica che è il remix (oggi che spesso in video per allocchi e altre immagini per allodole pop si fa sfoggio di piatti e disk jockey come un tempo lo si faceva di cazzoni con cazzute chitarre) si presta a svariati modi di intenderla e soprattutto a svariati mondi di interpretazione. C’è anche chi si cimenta con la musica di un freejazzista del calibro di Phil Ranelin , magari per indirizzare qualcuno alla sua riscoperta. Così si celebra un tributo magari anche sentito ad un vecchio eroe, si vede e si fa vedere cosa si è capaci di fare , si mischiano un bel (bhé non sempre è bel) po’ le carte e si mostra cosa si può fare con questa arte del remix e dove può ancora portarci tale pratica in un circolo di ciclo e riciclo , riuso e recupero , interpretazione e rifunzionalizzazione, decontestualizzazione e detournazione, missaggio e tiratura a lucido, taglia e cuci, scratcha e togli, pitcha e aggiungi e sopraincidi. E il tutto fatto da non musicisti (si diceva così ah ah ah), che usano lo studio come uno strumento per fare la musica e non solo per registrarla (come è sempre stato). Cosa credete voi che suonate dal vivo con i vostri complessini…che quei figuri che stanno dietro ai mixer non vi censurano il vostro suono? Ah no , credevo… Insomma tornando al disco, ce ne è per tutti i gusti. Quando dico per tutti i gusti intendo che la gamma dei generi sfiorati e toccati e percorsi è ampia . Quando dico generi vi faccio capire che qui non c’è niente di dirompente a livello storico o concettuale. Quando dico gusto dico che ci sono delle cose valide per le orecchie . Roba più o meno comunque abbastanza leggera e molto ascoltabile, anche come sfondo sottofondo. Nella maggior parte dei pezzi manca un groove impressionante che ci sarebbe piaciuto e che avrebbe fatto di questo disco una possibile bomba perché il suono è comunque interessante e si apre ai gusti di molti. L’ascolto non vi cambierà la vita (presumo , ma sono fatti vostri) né vi illuminerà definitivamente sulla tecnica del remix ma stimolerà la vostra fantasia e vi darà un’idea di molti suoni che oggi girano e rigirano e non vogliono finire. Faccio presente per fanatici e completasti che sono presenti El p e Micha acher dei Notwist e dei Village of Savoonga e Telephone Tel Aviv. A proposito, la classe di questi non è acqua.

Giovanni Vernucci

QUEENS OF THE STONE AGE/Songs for the deaf/Interscope

Caro lettore, è finalmente in vendita in tutti i negozi autorizzati “Songs for the deaf” della InterscopeGames. Sei pronto? Play! Primo schema: quattro ombre misteriose ti acciuffano per i capelli e ti sbattono ripetutamente la testa sul wall of sound di “You think I ain’t worth a dollar, but I feel like a millionaire”. Secondo schema: in “No one knows” Nick Olivieri e Dave Grohl ti costringono a seguire passi di danza da ballare col diavolo in persona. Terzo schema: occhio alla mostruosa creatura “First it giveth”, un tritacarne inarrestabile che ingoia, rigurgita ed ingoia nuovamente tutto ciò che gli capita a tiro. Quarto schema: sei assalito dal riff sabbathiano di “A song for the dead” ed in un sol colpo Josh Homme ti fa scorrere lungo la spina dorsale trent’anni di hard rock. Sei ancora in vita? Bene, allora a cavallo della ricalcitrante “Do it again” o in braccio alla lisergica “God is in the radio” puoi proseguire la tua avventura sotto il cielo scuro di “Sky is fallin’”, squarciato da tuoni ritmici e da lampi melodici, e seguendo i sentieri tracciati da Mark Lanegan giungerai ai piedi di “A song for the deaf”. Lì ad attenderti per lo scontro finale ci saranno i Queens Of The Stone Age, pronti ad assordarti i timpani con bordate furibonde……………………………………...Game over.

Guido Gambacorta

RED HOT CHILI PEPPERS/By the way/Warner Bros

Che bisogno c’era di sputtanarsi a questo modo avendo oltretutto la possibilità di godersi il sole e le belle donne delle spiagge californiane? Se a suo tempo avete apprezzato “Californication” è molto probabile che vogliate comprare anche questo “By the way”, ma sappiate che qui troverete solo due-tre pezzi in grado di stuzzicarvi i padiglioni auricolari (“By the way”, “Don’t forget me” e “Throw away your television”, che comunque in “Californication” avrebbero fatto la parte degli episodi di secondo piano). Per il resto canzoncine che si aggrappano disperatamente a coretti ruffiani buoni forse per qualche freakettone fuori tempo massimo (“Universally speaking”, “The zephir song”, “Tear”, “Venice queen”), pezzi untuosi che friggono e rifriggono il buon funk d’annata (“Cant’t stop”, “Minor thing”) e addirittura due scorribande oltre confine di quelle che meriterebbero il ritiro del passaporto: il ritmo ska di “On mercury” è credibile quanto Berlusconi che parla di giustizia, mentre una schifezza come la messicaneggiante “Cabron” non l’avrebbero mai scritta neppure i Calexico con le emorroidi o Manu Chao ubriaco fradicio a Tijuana!! Se poi appartenete alla schiera di coloro che considerano i veri Red Hot Chili Peppers unicamente quelli di Blood Sugar Sex Magic, beh, allora evitate persino di farvelo masterizzare questo cd, perché dopo averlo ascoltato non farete altro che piangere (e vomitare) per giorni e giorni!

Guido Gambacorta

RONIN/s/t/Bar La Muerte

Non è colpa mia se ogni mese mi tocca narrarvi le imprese di Bruno e degli altri musicisti di Bar La Muerte: l’etichetta milanese vive oggi un momento di fecondità mirabile, suggellato da riconoscimenti che spaziano dall’Italia all’estero, dalla critica a una schiera di adepti di tutto riguardo. So anche che le musiche proposte finora dall’etichetta hanno fatto storcere il naso non a pochi, vuoi per l’asprezza, vuoi per l’impeto impro, o per il poco ortodosso approccio ai suoni. Bene, questo EP di presentazione dei Ronin è il disco adatto a sorprendere chi sino ad ora si è dimostrato scettico verso la proposta di Dorella & Co.. Avreste mai immaginato musicisti di Ovo, Alba, R.U.N.I., perdersi in poeticissimi voli di chitarra alla Morricone (Ronin Theme), ricreare atmosfere labradfordiane con chitarra e pedalino delay (Nada), o improvvisarsi banda est europea per dar vita a contorsioni e spasimi di culture a metà tra oriente e occidente (Canzone d’Amore Moldava)? Penso proprio di no, e forse è proprio per questo che il progetto Ronin potrebbe rivelarsi la vera sorpresa di tutta la produzione Bar La Muerte. I pezzi sono ancora pochi per giudicare, così che prima di lanciare sentenze definitive ci tocca aspettare il loro esordio sulla lunga distanza, previsto per l’anno prossimo - si mormora la presenza di ospiti d’eccezione, e di certo non mancheranno le sorprese. Ma in fin dei conti, già questo è uno splendido EP: cinque canzoni imperdibili, minimali, sognanti, specialmente consigliate a chi proprio non è riuscito a digerire gli Ovo...

BakuniM

SAVOY GRAND/Burn the forniture/Glitterhouse

Chi si ricorda degli ultimi Talk Talk e del debutto solista di Hollis? In quegli album c’era scritto tutto, erano il ponte di passaggio tra passato e futuro di quella musica che di li a poco Simon Reynolds (tuttologo di The Wire) etichetterà come Postrock. Dicevamo dei Talk Talk e di Hollis e del loro aggrapparsi a chitarre in perenne sospensione, batteria secca e linee vocali in costante “sofferenza”. Bene, tutto questo sembra essersi incarnato nei Savoy Grand di Graham Langley, che dopo il singolo “The Moving Air” (singolo del mese per il “pericoloso” NME) ed il mini “Dirty Pillows” arriva al “metafisico” debutto sulla lunga distanza. Burn The Forniture si snoda in perenni elogi alla lentezza, tanto cari sia ai Talk Talk come anche agli Arab Strap, nel loro ibridare tappeti elettronici e sensibilità acustica (l’incedere di “A Trained Dog”), “Moonlit” prosegue sulla medesima scia, mentre “Glen A Larson” è un susseguirsi di emozioni dove riescono a convivere Talk Talk e Labradford. Non mancano in ogni caso lezioni di slowcore à la Low (“Business Is Good”) e ballate che partono in sordina per finire in finali in pieno trip Floyd-iano (“The Mirror Song”), ove in tutto questo si erge la poetica voce di Graham Langley, talmente sincera che, anche se non vale un Hollis ha feeling da vendere. I Savoy Grand arrivano al cuore senza mezzi termini. quando la parola “emozioni” assume nove nuovi significati e non se ne ha mai abbastanza.

Gianni Avella

THE FOG IN THE SHELL/Beyond The Absolute and the Nothing/Under My Bed

Questo nuovo lavoro di Marco Guizzi è molto utile per capire su quali principi estetici si basi l'etichetta "Under My Bed" di cui Marco è appunto il capo. Come si può intuire dal titolo, si tratta di un lavoro molto ambizioso: un concept di due ore diviso in due cdr ("the Absolute" e "the Nothing") complementari e pieni di corrispondenze simmetriche. La base rimane quel folk acustico ed intimista che avevamo già ascoltato nel precedente "Sorry", ma si nota, in questo, una maggiore varietà di suoni e strumenti: percussioni elettroniche ed acustiche si sovrappongono fuori sincrono in "Wooden bars", maracas e sirena della polizia (incidentale!) in "Your star was already drunk", campionamenti di pianoforte in "Now you are a tree", elettronica da cameretta nei vari intermezzi "End" e in "I see you everywhere", spruzzate drum'n'bass in "Manta Cocchi". Su tutto, sempre la chitarra e la voce di Marco, e uno stile debitore di dozzine di dischi da tutti i decenni che possono venirvi in mente. Molte buone idee diluite in un lavoro che avrebbe potuto durare la metà, ma che fretta c'è? Incasinato tra grovigli di cavi e bigodini di polvere nella sua cameretta, sembra di vederlo, indeciso se incazzarsi per il fruscio o includerlo nella lista degli strumenti. Il fruscio, alla lunga, diventa un secondo ascoltatore e finisce per tener compagnia

ONQ

THE STREETS/Original pirate material/Locked On

Disco d’esordio per il 21enne mc bianco Mike Skinner aka The Streets. “Turn the page” subito in apertura sembra uscita da “Ordinary man” dei Day One, con quella voce indolente spalmata su arrangiamenti d’archi e ritmi hip hop appena accennati, e la stessa cosa si potrebbe dire della settima traccia “It’s too late”. Altrove invece il giovane inglese si trastulla con cadenze two steps alla Craig David (“Has it come to this?”, “Let’s push things forward”) oppure emula niente meno che lo squallido Eminem (“Geezers need excitement”, “Too much brandy”). Hip hop?…….POP!?! Nonostante l’appellativo “stradaiolo”, dal contenuto di “Original pirate material” mi riesce alquanto difficile pensare a Mike Skinner che fa breakdance sull’asfalto, che scratcha vinili nelle feste di quartiere o che graffita le pareti della stazione ferroviaria di Birmigham, mentre me lo immagino proprio a suo agio svaccato pigramente in un pub con la sua bella pinta di birra davanti: una partita a freccette, qualche chiacchiera con i soliti compagni di bevuta, un occhio alla televisione per la replica della partita dell’Aston Villa, due buche a biliardo, ancora lunghe sorsate di birra….e quindi un fragoroso rutto: PRRRRRRROP!!

Guido Gambacorta

 


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