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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/10/2002 - Comments (0)
 
 
 
Aa.Vv / For Fun Only!, Azucena, Belongs To Me, Chris Brokaw, Comfort, De Facto, Dj Spooky, Dose One & Boom Bip, Eveline, Exhaust, Fly Pan Am, Frozen Fractures, David Grubbs, Institut Fuer Feinmotorik, John Frusciante.

Aa.Vv / For Fun Only!, Azucena, Belongs To Me, Chris Brokaw, Comfort, De Facto, Dj Spooky, Dose One & Boom Bip, Eveline, Exhaust, Fly Pan Am, Frozen Fractures, David Grubbs, Institut Fuer Feinmotorik, John Frusciante.

 
 

AA.VV/FOR FUN ONLY! - A Loretta Records Compilation/Loretta Records

Compilation antologica per la Loretta Records, dopo l’esordio quadruplo (Age, Senpai, Prague, Salinas) di poco tempo fa. Si parte con due belle ballate dal sapore classico – la prima un gioiello pop dei Centro-matic, fresca ispirazione di stampo Guided By Voices, la seconda un dolce incedere per chitarra e piano firmato dai TW Walsh. Terzo episodio affidato invece ai famigerati Calexico, che deludono nettamente le attese proponendo un folk tra Will Oldham e il Bruce Springsteen di Nebraska, spogliato però d’ogni fascino, intensità e interesse. E’ poi la volta degli italiani Salinas, che non c’entrano nulla con qualsiasi rimando Tex Mex – come si è scritto altrove - almeno da quel che si sente da questo pezzo. Sono piuttosto una band vicina, vicinissima ai R.E.M.: arpeggi stile Buck, cantato intenso a la Stipe, potremmo dire che il loro pezzo “Lost Train for Utah” è una copia un po’ sbiadita di I Believe, da Life’s Rich Pageant - il che non è male, intendiamoci. Poco da dire, in tutta sincerità, sul resto della compilation: toni languidi e un po’ “troppo” conservatori, svisate folky-country-cantautorale, et similia. Qualche buona cosa sul finale, soprattutto quando i The Got to Get Got si perdono in languide contorsioni, quasi degli StormandStress in preda ai brividi (sfiorando il plagio… ma magari tutti i plagi fossero così…). Bello anche il finale affidato ai Blomqvist, arpeggi minimali e giochi di volume tra il classico e il profano. Per il resto solo tanta noia e poche idee. Davvero deludenti poi gli Age, che al contrario di altri di idee ne hanno, eccome. Peccato siano quelle sbagliate. Facendo le giuste proporzioni possiamo quindi dire che la Loretta Records rimane - nonostante l’operazione, a mio avviso poco riuscita - un’interessante realtà italiana, tanto interessante quanto, ahimè, ancora un po’ acerba.

BakuniM

AZUCENA/Costa est/Autoprodotto

Costa est è il secondo album degli Azucena, pezzi strumentali esito di un percorso attento, curioso e minimale nei confronti dei diversi generi. Forse non completamente originale, soprattutto nella scelta delle ritmiche e del sound della chitarra elettrica, Costa Est ha il suo limite in una registrazione non sempre all'altezza delle intenzioni (art rock), ma contiene un gioiellino acustico (Wikiki Blue) di semplicissima bellezza e tutte le potenzialità di un gruppo che al combo classico, chitarra-basso-batteria, aggiunge il sax ed il pianoforte. info: http://digilander.iol.it/azucenaband

Andrea Pintus

BELONGS TO ME/s/t/Under My Bed

Presentato dall'etichetta come "l'anti-Bugo", a noi verrebbe piuttosto da presentare questo tipo buffo come il Jandek italiano. Un caso di musicista (?) davvero influenzato dalla musica che NON gli piace, il ragazzo registra una voce NON cantata e una chitarra NON suonata; a volte compare anche una batteria elettronica NON programmata, e in quei momenti possono venire in mente i primissimi Arab Strap, specie quando una sequenza di accordi viene ripetuta (evento piuttosto raro per dire la verità). In "Fuori tempo, Max" compare addirittura una batteria vera e sembra di ascoltare una di quelle cassette degli Small Things quando facevano cassette. La voce sembra però seguire sempre ciò che una volta potevano essere linee melodiche sanremesi, e canta testi (in italiano) assolutamente insensati, credo improvvisati. Pare proprio di ascoltare il disco di un cantautore sordo e ipnotizzato, e l'ascolto si fa piacevolmente insopportabile dopo i primi 2 minuti. Non ascolterete mai questo estenuante cd tutto intero, anche se paradossalmente pare si tratti di un "best of" estratto da una dozzina di cassette spedite dal tipo all'etichetta. A suo modo "estremo", questo cdr vi guadagnerà di certo la fama di "quello con i dischi assurdi in casa" nella vostra cerchia di amici, se ci tenete. Dopo Bugo, vediamo se la Universal ha il coraggio di offrire un contratto anche a questo qua.

ONQ

CHRIS BROKAW/Red Cities/12XU

Album solista per colui che dettava i tempi lenti dei Codeine ed accompagnava Thalia Zedek nei notturni blues dei Come. Chris Brokaw nel suo Red Cities (dopo un E.P. di debutto su Acuarela) da ancora un saggio della sua abilità polistrumentistica, suonando tutto da solo e incidendo un album strumentale dove affronta con estrema bravura quello che oggi viene chiamato post rock. La lunga e psichedelica “The Fields Part2”, le atmosfere alla Calexico di “Calimoxcho”, ballate dal dolce sapore indie (“Tournament” e “Dresden Promenade”), i riff possenti di “King Ferdinand” e “Shadows” (quest’ultima molto vicina al Neil Young periodo Arc/Weld), sono tutte esecuzioni di maestria e classe innata, e come incentivo consiglio di non perdere la rilettura “post rock” di “the Look Of Love di Burt Bacharach. Se per caso qualcuno (spero pochi) non conosceva il talento di Brokaw può anche iniziare da questo Red Cities per poi andare a ritroso fino alle sue collaborazioni passate con Codeine e Come (senza comunque dimenticare Pullman e The New Year) dove non solo si scopre il Brokaw pensiero ma anche le fondamenta del rock tutto suonato in questi anni.

Gianni Avella

COMFORT/s/t/Autoprodotto

Ai più attenti lettori di Succoacido suoneranno delle campanelline: il primo lavoro dei Comfort fu recensito proprio su queste pagine nel novembre 2001, quando il quartetto pisano esordiva, dopo soli quattro mesi di attività, con il convincente "Miriam Raving". Da allora solo una dozzina di concerti e un altro cd autoprodotto (nessuno e trino + comfort trio), che purtroppo mi sono perso e per questo non farò paragoni col lavoro precedente, come si converrebbe a un professionista. I Comfort suonano quella specie di avant-free-prog completamente strumentale che a molti piace definire "postrock". Il primo e unico nome che viene in mente per un paragone è quello dei Tortoise, ma è fin troppo facile citare i Tortoise quando si ascolta il glockenspiel di "Privilegio": a ben vedere i Comfort sanno spaziare da un ambient rarefattissimo a passaggi quasi mathrock, da atmosfere da colonna sonora "noir" a svirgolate freejazz, il tutto all'interno di una stessa traccia. La cosa che colpisce di più nel cd infatti, a parte la grande padronanza degli strumenti che occorre per suonare queste cose, è la varietà di stili e stati d'animo che coabitano pacificamente e si susseguono in una stessa composizione, e finiscono inevitabilmente per far durare la stessa sempre oltre gli otto minuti. Per i curiosi, esiste un'etichetta che si chiama Raving records, esiste una specie di "scena postrock" tra Pisa e Livorno che l'etichetta ha testimoniato con una compilation: procuratevela (si scarica gratuitamente da internet) ma scrivete direttamente ai Comfort per avere questo cd: comfortquartet@yahoo.it

ONQ

DE FACTO/Megaton shotblast/Gold Standard Laboratories

THE MARS VOLTA/Tremulant ep/Gold Standard Laboratories

Entrambi scritturati dalla Gold Standard Laboratories, etichetta californiana che scandaglia l’universo post-punk in tutte le sue infinite sfaccettature, i De Facto e i Mars Volta sono le due creature che Omar Rodriguez e Cedric Bixler hanno fatto nascere dalle ceneri dei defunti At The Drive In (mentre Jim Ward, Paul Hinojos e Tony Hajjar sono ora componenti del progetto Sparta). Dimenticate in ogni caso il gruppo di origine prima di immergervi a capofitto in “Megaton shotblast”: la musica dei De Facto (accanto a Rodriguez e Bixler compaiono Isaiah Ikey Owens, Jeremy Michael Ward e una serie di musicisti di contorno) è dub strumentale (a parte le voci filtrate in un paio di tracce) suonato con l’ausilio di chitarra, basso, batteria, percussioni, tromba, tastiere e pianoforte (no samples used on this recording). Che siano le escursioni jazz fusion di “Cordova”, “Descarga De Facto” e “Thick vinyl plate” o la salsa ispanica di “El professor contra De Facto” e “Rodche defects”, questo “Megaton shotblast” gira e rigira nel lettore cd che è un piacere! E “Figertrap” non sembra anche a voi un pezzo dei Calexico strappato e ricucito da qualche geniale remixatore? Molto più vicini al suono degli At The Drive In sono i Mars Volta (praticamente i quattro De Facto al gran completo più la sconosciuta Eva Catherine Gardner e Jon Phillip Theodor – già con Him e Royal Trux ed ora nei washingtoniani Golden), per i quali il dub defactiano è solo uno dei tanti elementi fatti confluire nella miscela esplosiva di “Tremulant ep”: intro e conclusione condotte da tastiere, basso e batteria, carica hardcore, voce effettata, chitarre deliranti, spruzzate psichedeliche ed anima latina per tre pezzi che promettono grandi cose!

Guido Gambacorta

DJ SPOOKY/Modern mantra/Shadow

“Modern mantra” viene dato alle stampe dalla Shadow Records di New York per la sua Mix Series. Il criterio ispiratore della collana è lo stesso che anima le ben più celebri Dj Kicks, Back To Mine e Another Late Night: si ingaggiano djs e produttori, gli si dà carta bianca affinché mixino pezzi presi dalla loro collezione di dischi ed il risultato finale viene elevato a vero e proprio manifesto del gusto musicale dell’artista di volta in volta intestatario della compilation. Per darvi un’idea dello stile della Shadow Records vi dico che a firmare alcuni dei volumi della Mix Series sono stati in passato Dj Cam, Jack Dangers, Dj Spinna, Carl Craig e Dubtribe Sound System. E’ adesso il turno del newyorchese Dj Spooky, il quale mixa insieme Blend, Dj Krush, Dj Cam, gli Aesop Rock ed attinge poi a piene mani dal catalogo della Instinct (Russel Mills, Terre Thaemlitz, il primo Moby) e da quello della stessa Shadow Records (Sharpshooters, Quentin’s Ladder, Goo, Fugitive Elf, Droid). In totale settantacinque minuti di buona musica tra hip hop, illbient, drum’n bass, acid jazz ed electro-beats.

Guido Gambacorta

DOSE ONE & BOOM BIP/Circle/Leaf

The paranoid and the paranormal collide with the ghosts of Captain Beefheart, The Last Poets and The Residents. – dalle note di presentazione dell’album, tratte dal sito dell’etichetta Leaf. Dopo l’epocale esordio dei cLOUDDEAD, riuscitissimo campione di post-rock imploso, hip hop colto e rigurgiti indie-lo fi, Dose One tocca con Circle la seconda vetta artistica per importanza e lucidità etico-estetica. Circle vede al fianco del nostro il produttore Boom Bip, il quale racconta di avere in mente una sorta di antologia audio-video con strumentazione live e partiture vocali inaudite. Risultato della collaborazione tra i due è invece una poltiglia impazzita di segni, messaggi, informazioni, quasi una confutazione schiacciante di qualsiasi “conoscenza” del contemporaneo, di qualsiasi ipotizzabile comunicazione nell’era stessa della comunicazione. Così, mentre il post-rock nasceva da un desiderio di assoluta incomunicabilità, di sforzo artistico asettico e fine a se stesso, il nuovo hip hop della Anticon mette in mostra un abnorme caleidoscopio di suoni e simboli (campionamenti ambientali, versi di animali, elettroniche povere, brevi frammenti di colonne sonore mandate in loop, jingles televisivi, cianfrusaglie da repertorio jazz commerciale, frammenti di voci al telefono, melodie strumentali alla Tin Pan Alley, musiche da videogioco e quant’altro…). L’ascoltatore è sommerso da una mole di segnali e informazioni che diventa indecifrabile per la sua stessa portata semantica, spropositata e indistinguibile. Il risultato, in termini di “assenza di messaggio”, è lo stesso di molto post rock quindi, ma l’atteggiamento è diametralmente opposto. Da notare poi come in mezzo a tali inferni di suono (il punk futuribile di “Town Crier’s Walk”, il rimasuglio di angoscia Hitchcockiana “The Bird Catcher”, il grind meccanico e ossessivo di “Slight”, il rigurgito funebre di “Questions over Coffeè”, non molto distante dai primi Royal Trux) sbuchi la voce di Dose One, martellante meccanica hip hop, schifata desolata disillusa, l’uomo contemporaneo disperso entro i confini di una realtà che lo sovrasta, lo condanna, di più, lo assorda. Di qui la ricerca di una spiritualità nuova e autentica, a tratti artificiale (ascoltate la visionaria “Directions to California”), altrove intimamente custodita (the “Viewfinder”), o ancora stordita e cosciente dell’illusione del tempo (la ninna nanna di “Sleep Talkin”). E’ questo il lato più toccante dell’auto-coscienza del nostro: la ricerca insistente di Dio, il tentativo di elevarsi, staccarsi da terra. Una volta arrivati a “Gin” viene poi da chiedersi se questo sia davvero un album di musica (suoni e voci), o che altro. Le musiche? Non ci sono, infatti. Come non c’erano nell’esordio degli You Fantastic!, o in Twin Infinitives dei Royal Trux, o nel primo cLOUDDEAD. Anche in questo caso non di musica si tratta, ma di pura (e non-semplice) presa di coscienza. Che cos’è Circle, allora? semplicemente un'altra avventura di Dose One - ormai un grande della musica “globale” - e un altro tassello della meravigliosa saga dell’art hip hop americano, il genere più nuovo e più vero di questo inizio millennio. Nonché una scoria di “cultura occidentale” letteralmente imperdibile.

BakuniM

EVELINE/Oh my friend please call me cause my world is full of joy/Autoprodotto

Band di Bologna più che promettente, gli Eveline approdano al loro primo demo dopo un anno di attività, concerti e vari cambi di formazione. L’intento principale dei quattro sembra sostanzialmente quello di dare nuovo lustro al pop italiano, attraverso una proposta tanto accessibile quanto raffinata ed originale. La musica della band ha infatti un sapore classico, tradizionale, abile però nel mischiarsi canzone dopo canzone alle più varie tinte "avant" del rock colto contemporaneo: “Feather” parte velvettiana per poi ri-assemblarsi su binari indie-pop in stile Karate; l’oscura e gotica “Rosaspina” – dall’intensità davvero fuori dal comune – procede tra arpeggi e declamazioni sottovoce sino ad esplodere in una tempesta di battiti minimal-elettronici, in chiaro stile Warp, il tutto accompagnato da una voce femminile calda e calibrata. “Sleepy Song” è invece pop in purissimo stile Radiohead, macchiata da un delizioso ed arcaico synth analogico che la rende sognante ed eterea. Per finire il pezzo più riuscito del lotto, la minimale “The Guns, The Trees…”, ballata per piano e voce sulla quale intervengono dilatate note di synth (ancora lui) a pennellare un pezzo desolato e lunare, struggente per il delicato lirismo e recitato alla perfezione (ci piacerebbe a questo punto dare un’occhiata al testo…). Tante idee, tantissimi riferimenti (dai Radiohead agli Stereolab, dai Velvet Underground a Kurt Weill, dai Karate ai Red Hot Chili Peppers) per una band sulla quale si può puntare già dall’inizio. Basterebbe, per esempio, una canzone come “The Guns, The Trees…” per ri-dare lustro alle uscite della mollacciona Homesleep. E ho detto tutto. A questo punto però speriamo che qualcuno si accorga di loro… Contatti: mattdic@hotmail.com

BakuniM

EXHAUST/Enregistreur/Constellation

Secondo album per gli Exhaust, gruppo orbitante nella galassia Godspeed You Black Emperor (il batterista Aidan Girt suona nei GYBE) ma anche loro, come i Fly Pan Am inclini a sonorità assai distanti dal gruppo madre. Trio ostico a partire dalla strumentazione (batteria, basso, clarinetto e tapes) gli Exhaust sono fautori di una miscela musicale dai tratti oscurissimi, l’aria che si respira sembra provenire dai Black Sabbath (si si, quei B.S.) periodo primo album, il basso traccia trame dai toni doom, la batteria scandisce groove dal vago sapore funky, i nastri manipolati emanano suoni cervellotici e foschi, ed il clarinetto suonato in modo straniante conferisce al tutto un’atmosfera da buio assoluto. Nove episodi che non lasciano presagire a nulla di buono. Gli Exhaust sono figli del nostro tempo, tanto attratti dal nuovo minimalismo (a volte sembra di ascoltare Alva Noto) che da certo rock “avant”. Se siete tra le persone che ascoltano sia Clouddead che Village Of Savoonga questo Enregistreur potrebbe anche diventare il vostro nuovo pane quotidiano.

Gianni Avella

FLY PAN AM/Ceux qui inventent n'ont jamais vècu/Constellation

Non c’è che dire, i Fly Pan Am hanno confezionato un’album notevole, completamente strumentale come il debutto ma interamente diverso dallo stesso. Se nel debutto i Fly Pan Ma erano legati all’epicità dei Godspeed You Black Emperor (ricordiamo che il chitarrista Roger Tellier suona nei GYBE) nel nuovo Ceux Qui Inventent N’ont Jamais Vècu vengono a galla nascoste radici kraut e new wave, e cosa fondamentale, le espongono più che bene. La differenza sostanziale tra quest’album dal precedente è la presenza continua, solida del ritmo, batteria e basso (soprattutto quest’ultimo) dettano tempi variegati, sia che si tratti di cavalcate ritmiche ai confini con i Neu (“Rompre l'Indifference De l'Inexitable..”) Che dub avvolgente stile P.I.L. (“Univoque/Equivoque”), qualche accenno al minimalismo (“Arcades-Pamelor”) e vere apoteosi ritmiche nella semisuite “Sound-Support Surface Noises Reaching Out...” , song divisa in tre parti (frammentate da rumori simili ad un cd difettoso) dove un basso iper dub a là Jah Wobble si incastra in ritmiche chitarristiche stile Talking Heads, una canzone di proporzioni veramente travolgenti. Ora si possono anche bollare come cloni (ma è tanto facile creare simili atmosfere?) ed il loro lavoro come un semplice taglia e cuci da musiche passate, ma secondo me quest’album non fa altro che dimostrare come tanta musica “retrò”, era talmente avanti che non sono i Fly Pan Am a guardare indietro ma erano gli altri a guardare tremendamente oltre, e poi vi sareste mai immaginati a ballare su di un album della Constellation?!

Gianni Avella

FROZEN FRACTURE/The Thermal Sink (Mk.II)/Under My Bed

Questo è un duo: Stefano (My Dear Killer) ed il chitarrista dei defunti Nasten'ka. Come ho sempre detto, l'universo è un grande cerchio che si chiude, e per una volta le stesse regole del macrocosmo si applicano anche al microcosmo della Under My Bed. Nelle 7 tracce che compongono questo breve cdr non troverete altro che due chitarre elettriche che si intrecciano ora in modo sonico, ora in modo matematico (perbacco, c'è anche un 5/4!). Date le premesse, questo cd non risulta assolutamente noioso, anzi, aggiungendo una batteria forse ricorderebbe i Giardini di Mirò, per non scomodare David Pajo. Gli intrecci sono molto orecchiabili e godibili, anche quando sembra di ascoltare un esercizio di solfeggio suonato invece che solfeggiato. Mi piacerebbe, un giorno, trovare un disco dei Frozen Fracture più lungo, con pezzi più compositi e complicati e con una batteria alle spalle, ma a pensarci bene non sto che descrivendo "Spiderland", che non è dei Frozen Fracture! Diciamo allora che questo disco si può considerare uno studio su un certo modo di scrivere musica per due chitarre, il compito a casa della lezione data dai chicagoani nel decennio passato (già revival, quindi).

ONQ

DAVID GRUBBS/Rickets & scurvy/FatCat

A pochi mesi di distanza dall’esperimento per chitarra e computer di “Act five scene one”, Grubbs torna alla forma-canzone con un nuovo ciclo di storie, due delle quali scritte a quattro mani con il romanziere Rick Moody. Ad accompagnarlo un gruppo di tutto rispetto composto da Dan Brown, Noel Akchoté, il solito John McEntire, nonché in un paio di brani i Matmos. La veste è insolitamente più rock ed elettrica rispetto ai lavori precedenti ( il riff urticante di Pinned to the spot ), e ciò a scapito di quell’anelito trascendente che ha animato sinora i momenti migliori della produzione solista di Grubbs. Ma ciò che il suono perde in trascendenza lo acquista in corposità e calore e ne vien fuori il disco forse più accessibile e popular della sua carriera. Grubbs non rinuncia ai cambi di tempo e d’atmosfera all’interno dello stesso brano: esemplari appaiono in tal senso Transom e Don’t think, in cui gli arpeggi della chitarra ( ipnotici e fatalisti nella prima, teneri e adagiati su un ritmo tropicalista nella seconda ) sono improvvisamente messi a tacere dall’impennarsi rock di tutti gli strumenti. Altrove dominano tinte autunnali come nel folk di A dream to help me sleep o nel solipsismo pianistico di Kentucky karaoke. L’incantato equilibrio è però messo a dura prova nella parte finale proprio dalla superflua gigioneria dei Matmos: un peccato veniale che ad un grande come Grubbs perdoniamo comunque volentieri.

Davide Romeo

INSTITUT FUER FEINMOTORIK/Penetrans/Staubgold

Dance minimale e progressiva, arte povera e contemporanea, figlia del tempo e della moda che lo contraddistingue. Ideale per bobos’ party e pave “liberal”, in filodiffusione a basso numero di decibel. Il patentino di ballabilità qui non è dato dalla potenza della battuta, ma il sottile gioco di riverberi e microfrequenze sovrapposte, imbrigliate all’interno di rigidi pattern in sedicesimi che garantiscono la circolarità e l’ossessività delle ritmiche, producono la sensazione dello “stasera si scopa”. Mentre il terzo negroni t’impasta la lingua e la superporca di fronte a te inizia ad aprire lo spacco, ti viene in mente il tuo ex coinquilino abruzzese, che invadeva le stanze di queste dissonanze, chiuso nel buio della sua cameretta con il suo misero note book ed un programmino facile facile, ma le cui umili origini impediscono tuttora intrepidi accostamenti con cotali teutoniche produzioni. Musica fredda, ragionata ed architettonica e pur tuttavia ormonale, in grado di indurre pulsazioni pelviche. Un solo dubbio: ma se poi non si scopa?

Roberto Baldi

JOHN FRUSCIANTE/To record only water for ten days/Warner Bros

Il terzo album solista di John Frusciante, uscito lo scorso anno. In “To record only water for ten days” Frusciante oltre a suonare la chitarra, fa uso dell’elettronica e canta (un cantato ora strascicato, ora carico di pathos evocativo, ora assonnato, in ogni caso sempre autenticamente confidenziale), scivolando dolcemente tra carinerie digitali colorate di pop minimale (“Someone’s”, “Remain”, “Ramparts”, “Murderers”, “Representing”) e ballate dal sapore acustico cariche di passione elettrica (“Going inside”, “Away & anywhere”). Come i Depeche Mode che sfogliano pigramente riviste di enigmistica nella loro sala prove o come Mark Lanegan che gioca con la playstation dopo aver riempito il suo diario di brevi poesie. Un bel disco, che fa apparire ancora più inopinato lo scivolone dei RHCP.

Guido Gambacorta

 


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