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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/03/2002 - Comments (0)
 
 
 
Sybarite, Circulatory System, The (International) Noise Conspiracy, Vandermark 5, Cornelius, The Dudley Corporation, Ray Daytona & Googoobombos, La Tigre, Billy Mahonie, Mo’ Horizons, Ooberman, Aa.Vv./Fuck The Millenium, Minox, 90 Day Men.

Sybarite, Circulatory System, The (International) Noise Conspiracy, Vandermark 5, Cornelius, The Dudley Corporation, Ray Daytona & Googoobombos, La Tigre, Billy Mahonie, Mo’ Horizons, Ooberman, Aa.Vv./Fuck The Millenium, Minox, 90 Day Men.

 
 

SYBARITE/Placement Issues/Temporary Residence

Sybarite è il moniker di Xian Hawkins, polistrumentista e songwriter attivo per buona parte dei 90's a fianco dei Silver Apples, sia in tour che in sala di registrazione. Solo di recente Xian decide di intraprendere la carriera solista in ambito post-elettronico, sulla scia di artisti quali Matmos, Mouse on Mars e Fridge. Carriera che prende avvio con una serie di 7" (Engaged, Otonomy, Meusic, tutti pubblicati dalla Temprary Residence) e con la pubblicazione di 'musicforafilm', colonna sonora per un film immaginario, che gli procurerà le grazie di molte labels, tra le quali la rinomata 4AD (per la quale è appunto previsto un nuovo album in tempi brevi). L'album in questione invece, Placement Issues, raccoglie tutti i primi singoli usciti a nome Sybarite, nonché un remix firmato E*rock e due pezzi inediti. Tralasciando il lato neo-acustico della musica di Sybarite e valutando la proposta sonora entro i canoni della nuova scena post-elettronica, si dovrebbe subito far notare il carattere non troppo 'sperimentale' dei brani - elemento discriminante, in contrapposizione allo spirito stesso di tale genere, ove sperimentare significa cercare di adattare suoni nuovi a 'forme nuove', ipotizzare mutevoli futuri - sospinti da un uso razionalmente giusto e alternativo della tecnologia - di contro a qualsiasi formalizzazione del presente in musica. Il nostro artista pare disinteressato sia all'estremamente nuovo che al compiuto, al durevole, puntando piuttosto a quell'evanescente approccio da sottofondo tanto caro all'ambient e alla scena facente capo ai Tortoise. La classe non è certo la stessa, ma quando si smette di 'ascoltare' Sybarite limitandosi semplicemente a 'sentirlo' (non solo con orecchie, ma con occhi, naso, pelle, ogni punto di contatto di noi stessi con la realtà che ci circonda), queste musiche iniziano ad avvolgerci, sino a che ci ritroviamo immersi in uno splendido bagno di caldo suono terapeutico, una piacevole doccia di ritmiche gioise per la celebrazione del Dio Relax. Ma ripeto, la classe non è la stessa, e questo principalmente a causa della dinamica di costruzione sonora, che risulta troppo approssimativa, cosparsa qua e là di buchi e inconsistenze un-po-troppo-da-colmare - soprattutto data la forma canzone, il più delle volte semplice e squadrata (i 4/4...) di fronte alla quale - al contrario di molte 'licenze poetiche' di tanti pionieri sperimentali - è più difficile chiudere un occhio. Xian Hawkins deve quindi migliorarsi negli arrangiamenti e dev'essere in grado di ricercare una sua originalità, anche se può già vantare una precisione e un equilibrio nello svolgimento dei pezzi quasi degno dei grandi del pop contemporaneo. Proprio attraverso questa chiave di lettura, 'Placement Issues' risulta più vicino ad una versione strumentale ed elettronizatta del pop raffinato a la Badly Drawn Boy, piuttosto che alle mutazioni techno-grottesche dei Mouse on Mars e a quelle glaciali dei To Rococo Rot. Dovendo citare i pezzi migliori direi: la marcetta space-jazz di Without Nothing I'm You, l'arioso post-funk dalle parti dei primi Tortoise di Unforced Force of the Truth e poi le stupende sonorità da videogame, trombeggianti e deformi, ricreanti un'atmosfera festiva, solare e ventosa, di quel piccolo capolavoro che è la conclusiva Identity #2: il sussurrare umano del cuore elettronico.

BakuniM

CIRCULATORY SYSTEM/Circulatory System/Cloud Recordings

Spazio: Athens, Georgia, collettivo Elephant 6, lussuregiante oasi psichedelica non revivalista. Tempo: rimescolato. Neutral Milk Hotel, Beulah, Apples In Stereo, e Olivia Tremor Control. Questi ultimi hanno sfornato “Dusk at cubist castle” nel ’96 e “Black foliage” nel ’98, due gemme del pop contemporaneo. A prima vista, Beatles-Who-Kinks estremamente solari e aerei, con sostanziose iniezioni di rumori ambientali e immane dispiego di tastiere trombe trombettine fisarmoniche trictrac e mini-ciccioli. Guardando meglio sotto la stratificazione (anche 64 tracce diverse, dicono), una vena melodica degna di un McCartney, un vulcanico spirito di ricerca, e soprattutto una visione inedita, nel piattissimo panorama alternarock popolato da spacciatori di banalissima noia travestita da depressione e nausea esistenziale. Così, smussando gli angoli sperimentali e puntando di più sulla melodia, ecco che gli OTC riappaiono sotto altra veste, tirando fuori per la neonata Cloud Recordings questo esordio a firma CS che delizierà quanti si erano lasciati irretire dalle illusioni cristalline di questi geni del pop, e aprirà agli altri le porte di un mondo di esserini pop-syke saturnini (l’apertura Yesterday’s world, “can we go back in time? Can we bring each day?”, attacco sonnacchioso che muta in perfetto rock visionario à la Who che muta in un bagno di clarinetti e oboi), malinconici (l’ossimoro Joy), terrificanti, a volte (e la chiusura “we will live forever and you know it’s true” è il lamento eterno di anime in pena). Sotto i colori pastello della psichedelia si cela qualcos’altro. Il genialoide polistrumentista e motore immobile William Cullen Hart è il Lennon postmoderno e preistorico, dategli fiducia. [NB: disco molto poco distribuito, non si trova neanche a Roma o Milano (that’s indie-rock, baby): nell’attesa, qualche soudclip e altro su http://www.cloudrecordings.com]

Francesco Giannici

THE (INTERNATIONAL) NOISE CONSPIRACY/A new morning, changing weather/Capitalism stole my virginity/Burning heart

Karl Marx, James Brown, Fugazi, George Orwell, Vladimir Majakovsky, Rolling Stones, Simone De Beavouir, Jean Genet, The Clash, Michel Foucalt, Make Up, Jack London, Bikini Kill, Milan Kundera, Buenaventura Durruti, Dead Kennedys, Noam Chomsky e molto altro ancora nella musica e nelle parole di “A new morning, changing weather”. Questo disco è un godimento per la mente e per il corpo, che so, come fare sesso mentre sulle pareti della propria camera stanno scorrendo le immagini di un film di Ken Loach! Forse c’è qualcuno in grado di resistere alle scosse adrenaliniche di “Up for sale”, “Bigger cages, longer chains” e “Born into a mess”? E subito dopo aver ascoltato “A northwest passage” non viene voglia anche a voi di spalancare la finestra per far entrare nella vostra stanza i raggi del sol dell’avvenire? “There is a light that shines on everyone, there is a light that shines on everyone”! Al centro di tutto l’uomo con i suoi valori e i suoi bisogni: un nuovo umanesimo da opporre al capitalismo sfruttatore, alla globalizzazione incontrollata e al consumismo sfrenato per effetto dei quali gli individui sono ridotti a puttane mercificate (“We are all sluts, cheap products in someone else’s notebook” cantano gli International Noise Conspiracy in “Capitalism stole my virginity”: canzone scoppiettante e titolo capolavoro!). In mano non hanno spranghe o bombe molotov ma basso e chitarra, non partecipano a vertici internazionali ma portano la loro musica in giro per il mondo ormai da due anni, non fanno promesse elettorali, non sono a capo di qualche partito, non dirigono nessuna associazione sindacale… Probabilmente gli International Noise Conspiracy non riusciranno a cambiare le sorti del mondo ma già non ci sembra cosa da poco il fatto che riescano a prendere a calci in culo il buonismo dilagante divertendosi e facendoci divertire! Eccome se ci divertiamo, oh siiiiiiiiiiiiiiii!! P.S. : Non lasciatevi assolutamente sfuggire il singolo “Capitalism stole my virginity”, perché contiene due fantastiche tracce non incluse nell’album: il punk’n’roll viscerale di “Ever felt cheated?” e il garage beat di “United by haircuts” non avrebbero affatto sfigurato all’interno di “A new morning, changing weather”!

Guido Gambacorta

VANDERMARK 5/Acoustic machine/Atavistic

Il sassofonista Julius Hemphill nasce nel 1940 a Forth Worth, in Texas. Dopo alcune esperienze con le locali bands di rhythm and blues, nel 1966 Hemphill si sposta a St. Louis e nel 1968 entra a far parte del collettivo musicale Black Artists Group; trasferitosi a New York, nel 1976 forma insieme a Oliver Lake, David Murray e Hamiet Bluiett Hemphill il World Saxophone Quartet, quattro sassofonisti uniti dall’idea che i loro strumenti potessero esprimersi compiutamente anche senza la sezione ritmica. Nel 1989 Hemphill abbandona il quartetto e fonda un sestetto per sei sassofoni che fa la sua prima apparizione in “Long Tongues: A Saxophone Opera”, un’opera multimediale con ballerini, attori, musica strumentale e proiezioni incentrata sulla storia del Bohemian Caverns Jazz Club tra il 1943 e il 1968. Nel 1990 il Julius Hemphill Sextet musica lo spettacolo di danza “The Last Supper at Uncle Tom's Cabin: The Promised Land” per il coreografo Bill T. Jones, con la cui compagnia il sestetto va in tourneè negli Stati Uniti e in Europa durante la stagione 1990-1991; firmati dal Julius Hemphill Sextet escono nel 1991 “Fat Man and the Hard Blues” e nel 1993 “Five-Chord Stud”. Julius Hemphill muore il 2 Aprile 1995. Perché la Storia di Julius Hemphill all’interno della recensione dell’ultimo disco dei Vandermark 5? Perché a lui il gruppo di Chicago dedica una delle cose più belle che ho ascoltato negli ultimi tempi, cioè “License complete”, sette minuti durante i quali il trombone di Ken Bishop prima gioca a nascondino con i due sassofoni e poi inizia a rincorrerli come farebbe il gatto con i topi. “Acoustic machine” è un viaggio attraverso la Storia del Jazz, da Lester Young a Stan Getz, mentre il bonus cd incluso nell’edizione limitata è un tributo che i Vandermark 5 fanno alla Storia del Free Jazz attraverso la rilettura di pezzi di Archie Shepp, Don Cherry, Jimmy Giuffre e ovviamente Julius Hemphill. La Storia del Jazz raccontata dal sassofono di Ken Vandermark. La Storia. Documentata dalle pagine di un libro; immortalata da uno scatto di Robert Capa. Storie, semplicemente storie, quelle che si sfiorano quotidianamente in sguardi frettolosi scambiati per strada. Storie come quelle catturate dall’obiettivo di William Klein. Ai due grandi fotografi i Vandermark 5 dedicano rispettivamente “Close enough” e “Wind out”.

Guido Gambacorta

CORNELIUS/Point/Matador

Nutro una cordiale antipatia per i giapponesi. Malgrado abbiano inventato Goldrake e estremizzato il concetto di bukkake, ciò non è bastato a farmeli venire simpatici. Ma è un limite mio, come per quelli che amano Marylin Manson. Ma un occhi a mandorla che è ossessionato dai fantasmi di Music Machine, Count Five, Beach Boys o Clash piuttosto che da quelli di Caterine Deneuve o Fellini deve avere qualcosa di più che una scorta di rullini Kodak e Fuji nel suo zainetto a tracolla e non deve essere così terribile accompagnarsi ai suoi dischi. Che vivono, è vero, di quell'inconfondibile aria di deja vu che tracima copiosa da gran parte delle produzioni del Sol Levante ma che qui, invece che diventare parodia, viene riassemblata in un contesto dalle forme nuove. Se insomma i dischi dei Pizzicato Five possono paragonarsi a quelle famose bombolette con su scritto "aria di Napoli", quelli di Cornelius sono magari delle matrioske di Mamma Russia, dove se vuoi puoi nasconderci dentro anche un tocchetto di fumo. Detto questo, Point è un disco meno "esagerato" rispetto alle passate produzioni di Cornelius, con frequenti richiami alla natura ed ai suoi rumori, dai cinguettii di Bird Watching at Inner Forest al gorgheggiare di Drop, fino al liquido scorrere di Tone Twilight Zone, crepuscolare come il titolo suggerisce, quasi alle soglie del raccoglimento ambient. Acustico e farcito di beeps, lo ricorderemo magari come l' album new-age di Keygo, se riusciremo a cancellare il ricordo delle stilettate di I Hate Hate, e non saremo distanti dall' essenza del disco, che Cornelius ha voluto quasi spartano, se confrontato con la risaputa abilità del nipponico al taglia e cuci sintetico.

Franco "Lys" Dimauro

THE DUDLEY CORPORATION/The lonely world of The Dudley Corporation/Scientific laboratories

Carino questo “mondo solitario” dei Dudley corporation. Le spigliate canzoni di cui è formato riscaldano un po’ in questo freddo e letargico inverno. La band irlandese s’inserisce in quella corrente dell’indierock americano a metà strada tra i Pavement (in alcuni passaggi la voce è pressoché identica a quella di S. Malkmus), e qualcosa di leggermente più “matematico”, in virtù del costante uso di tempi dispari. Per essere un’opera prima non c’è male, anche se alcuni brani soffrono la mancanza di mordente, e nel complesso l’album ripete certi cliché di genere, ormai più che consunti. Ad ogni modo, chi lo ama questo genere, si faccia sotto, poiché troverà pane per i propri denti.

Salvo Senia

RAY DAYTONA & GOOGOOBOMBOS/Space Age Traffic Jam/Mad Driver

Le folli macchine volanti disegnate da Winston Smith (uno del giro Alternative Tentacles, autore tra l'altro del Cristo Consumista di In God We Trust, Inc. e dello splendido patchwork sull' Evolution is Outlawed di Biafra, NdLYS) ci introducono al secondo lavoro di Ray Daytona, avamposto del suono vintage sui colli toscani. Come già sul disco di esordio, questa jam del traffico dell'era spaziale è suonata su due "carreggiate": una corsia dedicata ai classici strumentali devoti a maestri come Link Wray, Man or Astroman?, Ventures o Dick Dale, e l'altra al mai sopito amore per il garage punk più canonico, lo stesso che nei 68 secondi di 6K6 ci riporta indietro al passato storico dei Pikes in Panic di Keep it Cool and Dry o che nell'eco di Monster Stomp fa rivivere l'incubo della Night of the Sadist e che abbrustolisce le trame di pezzi come Nothing to lose, Spider in my head, Texas Saucer Contact o 2 is better than 1. Il basso di Giulia, ex sezione ritmica degli Star-T si è splendidamente accordato all'umore del combo del Maramai e del Landi e il tutto è prodotto e registrato come sempre egregiamente da David Lenci, ormai aduso ad irrobustire quanto di meglio esca dal sottobosco italiano. Bravi.

Franco "Lys" Dimauro

LA TIGRE/Feminist Sweepstakes/Ckicks On Speed Records

Lontani sono i tempi in cui Kathleen Hanna urlava a tutto il mondo il suo essere femminista con una rabbia che a distanza di anni non sembra assolutamente andata persa, tra il passato è il presente è cambiato solo il gruppo, non più le Bikini Kill bensì la Tigre e non mutando di una virgola la sua attitudine punk ma anzi facendola convivere con interessanti sprazzi di new wave e con l’anima di Iggy Pop (periodo dell’omonimo Stooges) gravitante sulle 13 tracce. Dicevamo di Iggy Pop ed è difficile non pensare agli Stooges nell’attacco garage di “On Guitar” e Keep On Living” con la nostra “felina” ideale controfigura dell’iguana. Oltre alle sfuriate punk Kathleen si avvicina anche a certo soul come in “Fake French”, al blues di “Tgif” che tanto ricorda i Boss Hog di un’altra “vecchia” arrabbiata come Cristina Martinez e riuscendo anche nell’intento di essere dolce nella strumentale “Cry For Everything”. Kathleen è ritornata, certo i giorni in cui faceva tremare con le Bikini Kill sono distanti ma almeno è l’unica rimasta fedele a tali idee a distanza di tempo, donna da elogiare e soprattutto……statene alla larga che fa male!

Gianni Avella

BILLY MAHONIE/What Becomes Before/Southern

Nell’ormai affollato calderone del post rock è stato detto tutto o quasi, dagli isterismi dei Don Caballero sino alle cavalcate Floyd-iane dei Tarentel tale genere è stato “trattato” in tutte le possibili sfumature e se qualcosa di nuovo deve ancora essere scritto questo non spetta agli inglesi Billy Mahonie che con “What Becomes Before” giungono al secondo album (primo per la Southern) con la medesima formula del sereno/aggressivo che ha reso famosi i Mogwai e perché no i nostrani Giardini Di Mirò. In ogni caso “What Becomes Before” è un album onesto con episodi interessanti come la liquida “Lothe”, la nervosa ““Dusseldorf” e soprattutto l’esperimento blues free (con tanto di fiati) di “Terylene”, ma le note dolenti arrivano quando eccedono nella durata dei brani, in particolare “Keeper’s Drive” e “Bres Lore” sono episodi che dopo l’incoraggiante partenza si perdono in jam finali senza capo ne coda, il tutto mentre episodi come “The Day Without End” lasciano intravedere comunque una spiccata sensibilità di fondo. In definitiva What Becomes Before è un album che non lascia l’amaro in bocca e si lascia ascoltare gradevolmente, con ottimi picchi ma altrettante cadute di tono, se solo durava un po’ di meno…. attendiamo con calma i (dovuti) risvolti futuri.

Gianni Avella

MO’ HORIZONS/Remember tomorrow/Stereo Deluxe

Un Saint Germain che fa il turista a Copacabana dedicandosi non all’house ma alla bossa nova? La scuola krauta che se ne va in vacanza ai tropici per il carnevale carioca e incontra una scuola di samba? Kruder & Dorfmeister che invece di perdersi fra le nebbie e i fumi dei cantoni elvetici vanno a rinfrescarsi i polmoni e le idee nel bel mezzo del Brasile? Sembrerà troppo facile ma a me pare suoni così (ed è un bel suonare) questo secondo lavoro composto e prodotto dal duo Droesemeyer e Wetzler. Formula che si ripete in Europa un po’ ovunque e con buon successo questa del duo elettronico. Il disco è un melange esotico che non stonerebbe di certo in un programma che Francesco Adinolfi potrebbe condurre, direttamente da una rotonda sul mare, nelle più luminose sere primaverili mediterranee. Certo che a tratti la mano teutonica rende glaciali certe soluzioni ma il calore dello human touch (tocco che appunto nello specifico alemanno è più freddo di uno, che so, latino) predomina comunque sulla freddezza dell’hi tech e si diffonde essenzialmente per ogni traccia grazie all’impiego di strumenti di ogni genere (qui spunta un sitar qua un vibrafono, qui compare una tromba o un trombone là fa capolino un organo vintage; inoltre il beat elettronico è spesso accompagnato da varie percussioni acustiche) e da voci che cantano anche in spagnolo e portoghese piene d’anima latina e/o nera e/o bianca. Sempre anima è. Un caleidoscopio di ritmi allegri e sostenuti, ballabili o da seguire rilassatamente con gli occhi. Una girandola di colori dove a spiccare è l’acquamarina e il verde delle palme. Un disco, come suggerisce il titolo, per tenere a mente il futuro? Sicuramente un disco che ha ben presente il presente. E tanto vi basta, no?! Per qualcuno sicuramente potrà non essere la propria tazza di tè preferita, ma vi assicuro che per molti costituirà un buon doppio daikiri ghiacciato che, si sa, può essere sorbito nelle più svariate occasioni. Anche in quella dove a servirlo è un’amica buona che ve lo guarnisce con un ombrellino rosa che con queste tonalità di verde amazzonico e caraibico ci starebbe proprio bene. Ah dimenticavo. Se vi interessa c’è una cover di Mayfield. P.S. Non ci crederete ma questo disco l’ho trovato in un appartamento che una ragazza originaria di Stoccarda e che uno originario di Bel Horizonte si dividono. Li saluto perché sono cari amici.

Giovanni Vernucci

OOBERMAN/Running girl EP/Rotodisc

Ohcchebello! Il “New Acoustic Movement”! Finalmente qualcosa di verosimilmente moderno per il mio povero lettore di compact disc, abituato a quella monotonia sorpassata del “rock”. Musica fresca, per niente banale (appunto: “New”), mai soporifera e solo leggermente mielosa. Insomma, adesso anch’io potrò sentirmi veramente “Hip”! Ora, diciamoci la verità, per capire veramente cosa ne penso di questo disco basterebbe sostituire tutti gli aggettivi usati sinora con i rispettivi contrari, ma vi eviterò la fatica: gli Ooberman sono più melodici dei Belle&Sebastien, tediosi quanto i Portishead, e ripetitivi come i Sodastream. Tutto questo senza aver neppure uno dei pregi delle band citate. Entiende?

Salvo Senia

AA.VV./Fuck the millenium/Munster

Ci pensa la Munster a realizzare una compilation per accommiatare / salutare i due millenni che si sono accavallati attingendo al proprio carnet di artisti gravitanti nei territori del punk’n’roll. Allo stesso tempo, cogliendo i classici due piccioni con una sola, povera fava, questa raccolta di tutto rispetto da un assaggio dell’ampio spettro musicale abbracciato dall’etichetta spagnola includendo anche brani inediti e live delle band presenti. Aprono le danze i newyorchesi Suicide King con una power song incendiaria, “get on up”, in perfetto stile AC/ DC sia nel riffing che nella voce molto simile a Brian Johnson; si sollevano di una spanna sugli altri anche i Sour Jazz di “mr.popular”, irresistibile sexy song con tanto di fiati, appeal ( anche commerciale) enorme e classe da vendere potrebbero far ballare mezzo mondo; la prova dei Streetwalkin’ Cheetas, “ Automatic” è un pò fuori dal coro ma comunque trascinante nel suo melodic rock alla Foo Fighters ( !!). A ricordarci che in fin dei conti questi possono essere ancora “groovy times” sono i New Christs che recuperano i Ramones più epici e tenebrosi, mentre l’ottimo inedito dei The Meanies invoca “ Buffalo free” a suon di sixties garage visionario e sognante, melodie barrettiane e coretti Beach Boys. I Tight Bro’s riprendono il discorso sugli AC/DC di cui sopra, stavolta con una voce emula del compianto Bon Scott, mentre “make it a habit” è rock blues arcigno e cazzuto. A conclusione di quest’antologia che ripesca nel calderone musicale e iconografico di certi anni ’60, a cominciare dalla copertina, non poteva mancare la spy song di turno servita stavolta dai Golden Zombies con “the creepy conga”, aria da James Bond, riverberi a manetta e organetti farfisa compresi. Bella compilation insomma che in più occasioni mostra dei gruppi maturi e meritevoli di una maggiore esposizione promozionale per quanto sono promettenti e che più in generale ha il pregio di non affossarsi nell’autoindulgenza underground, anzi. Grande Munster! I want more!

Francesco Imperato

MINOX/Downworks/Suite inc.

Immagino ci sia una strada, che parta da compositori come Stockhausen e Cage, passi per il Krautrock, attraversi certa new wave, l’ambient e l’industrial tutti, fino a giungere all’elettronica più recente, quella di Aphex Twin e di realtà lievemente meno ortodosse (Pan sonic, Mego rec., etc.). I Minox dovrebbero conoscerla bene questa strada, perché è da lì che sono sicuramente passati per riuscire a realizzare un’opera complessa come “Downworks”. La musica è meno ripetitiva e cervellotica (non meno intelligente) in relazione a quella proposta dall’odierno panorama elettronico, ma anche molto più coinvolgente. Nonostante la sua omogeneità, all’interno dell’album alcuni brani spiccano sugli altri, come “Arp 2001”, le cui atmosfere vi faranno sentire come all’interno di Blade runner grazie anche al delirante cantato di Lydia Lunch, oppure “The lost poet”, con una formidabile performance al violino di L. Reininger dei Tuxedomoon. Complimenti.

Salvo Senia

90 DAY MEN/To everybody/Southern

Diciamolo: è un periodo di dischi di merda. Voglio essere ottimista, e considerarlo come il preludio a qualcosa che esploderà tra qualche anno. Come quando il Re Leone gira attorno alla preda prima di scagliarsi con i denti sulla carotide della vittima ignara. Voglio ancora sperare che ci sia qualcosa da dire e che non sia qualcosa che abbiamo già sentito. Che ci si prepari, tastando il terreno, a dare una spinta in verticale, come quando un disco degli Husker Du ti prendeva il culo e ti sbatteva il cranio sul soffitto. Per ora molti dischi si limitano a tastartelo, il culo. Te lo palpeggiano come sulla metropolitana. E tasta oggi, e tasta domani. Finchè non ti girano i coglioni e decidi di spaccargli il setto nasale. E malgrado le riviste ufficiali continuino a consigliarti almeno dieci capolavori al mese, solo uno stolto può ancora dar loro credito. A meno che non ci si accontenti di poco. To Everybody: non è il disco che ti schianta al tetto di casa ma tra quelli che ti palpano il fondoschiena è quello che ti fa godere di più. E' un disco che rimescola le carte, che osa, ponendosi come un lavoro di passaggio importante, di evoluzione e non di stasi. Creativo. Rischioso. Che già conosciate o meno il precedente lavoro dei 90 Day Men, poco importa. Non ci trovereste molti collegamenti: il feroce tiro new wave che era stato sparato da Critical band è qui fagocitato dentro un ovattato lavoro di complessa struttura progressiva. Riadattato ad un nuovo elaborato livello di scrittura e arrangiamento. Fuliginoso. Fuorviante. Dopo essere introdotti da una voce a metà tra John Lydon e Arrington De Dyoniso che declama su un basso mulinante e circolare, quest' ultimo cede la scena, al secondo minuto e mezzo, ai tasti d'avorio di Andy e da qui in poi le atmosfere mutano pelle, indicandoci la strada che porta al climax dell' opera. Chitarre e basso si arrampicano intrecciandosi ai grappoli di note del pianoforte, vero protagonista della rivoluzione in atto nel suono del gruppo di St. Louis...."da una primadonna all'altra" come ci avevano già anticipato su quel groviglio now wave che fu l' albo di debutto, indicandoci la chiave di volta per l' evoluzione musicale della band. L'aereo dei PIL dirottato nell' aeroporto privato dei Rachel's. Il furgone dei Blonde Redhead fuori strada, tra i campi di frumento e avena di una comune hippy in pieno trip Soft Machine. Scuro e sofferto, decadente e malinconico come un disco dei Radiohead. Nella città che urbanizzò il blues, qualcuno sta lavorando a qualcosa di cattivo.

Franco "Lys" Dimauro

 


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