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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/12/2001 - Comments (0)
 
 
 
Fugazi, Fennesz, Her Space Holiday, Tarentel, Schlammpeitziger, Brian Agro, Christoph Gallio, Mosioblo, Buellton, Jah Wobble & Deep Space, Art Zoyd, A Tribute To The Smiths, Snowpony, Quasi, Spokane, Dntel, Scissorfight, Atombombpocketknife, Cavity.

Fugazi, Fennesz, Her Space Holiday, Tarentel, Schlammpeitziger, Brian Agro, Christoph Gallio, Mosioblo, Buellton, Jah Wobble & Deep Space, Art Zoyd, A Tribute To The Smiths, Snowpony, Quasi, Spokane, Dntel, Scissorfight, Atombombpocketknife, Cavity.

 
 

FUGAZI/The Argument/Dischord

FUGAZI/The Forniture (7”)/Dischord

Osama può sterminarci tutti i Bush e le torri gemelle del mondo, ma per piacere non ci tocchi i Fugazi: Washington D.C., prati verdi e Casa Bianca, aerei in fiamme, passeggeri tristi… ho spento il TG quella sera, ho acceso lo stereo. Di colpo tutto scompare, non un mondo, nessun qualcosa qualsiasi, null’altro che il vuoto, intorno a me – dentro di me, e quindi ovunque – nulla, se non i Fugazi. Non più una Kabul che bruciava, non più una New York che sanguinava negli abissi delle sue polveri, soltanto le urla e le contorsioni di Guy Picciotto, il sudore di Ian McKaye, raggelanti, spiazzanti: un basso è una guerra mondiale, una chitarra è un tuono nucleare, un disco è più grande di tutte le nazioni, di tutti i popoli, delle democrazie malate, delle TV dalle mille facce, colte e inculate – Full Disclosure ti sbatte giù dalla sedia, ti prende e ti sbatte nel tuo corpo di sedicenne immacolato: è di nuovo verginità e incoscienza, di nuovo trafitti da schegge di gioia, entusiasmo, impazzite schizzate nella carne, che sprofondando ti prendono il cuore, zitto e allibito alle porte del rock – Full Disclosure fa male, è il ritornello a mitraglia che ti brucia il culo, come faceva un tempo; è un suono che ti prende e ti vuole solo per se, tutto ciò che la tua insozzata mente abbia mai percepito lo esige, sei suo, COMPLETAMENTE. Questo è il ritorno, i quattro di Washington, un marchio-di-fabbrica: FUGAZI. Quella che dal vivo è stata probabilmente la più grande rock-band degli ultimi 10 anni, nonchè una tra le più seminali dell’universo underground, ci regala The Argument, disco passatista ma attuale come non mai, a tratti anche pacato come non mai (per quel che li riguarda), e sì, potete venirmi a dire che End Hits nel complesso era più riuscito, che Red Medicine era un disco epocale e che 13 Songs vantava un vigore e una freschezza mai sentiti, ma l’avete mai ascoltata un’apocalisse di gloriosa foga punk come quella della già citata ‘Full Disclosure’? per il resto non mancano ottimi episodi: l’epica rabbia di ‘Ex-Spectator’ con alla voce un incazzatissimo MacKaye, condita di ottime figure percussive (in alcuni brani – come dal vivo – i Fugazi si servono di un batterista aggiuntivo), gli squadrati deliri chitarristici alla Polvo di ‘Epic Problem’, la melodiosa ‘Life and Limb’, la dilatata ‘The Kill’. Buono anche il 7”, The Forniture, contenente vecchio materiale della band, non troppo distante dalla materia rock presente nel CD. Un buon disco, anche se non tra i loro migliori. Ma fregatavene e fatelo vostro, perché Full Disclosure è una canzone rock stupenda, trascinante - non saprei che altro dire, è un grande, grandissimo pezzo, una calamita per l’anima, un istante che finalmente diventa eterno, qui ed ora. Non me n’ero mai accorto: un grande pezzo di musica rock è davvero il solo ed unico modo attraverso cui possiamo arrivare a sfiorare il tempo – afferrare, fermare il tempo.

BakuniM

FENNESZ/Endless summer/Mego

Non ci sono molte parole che possono descrivere adeguatamente la bellezza della musica contenuta in questo nuovo disco di Christian Fennesz dichiaratamente ispirato ai Beach Boys. Le stesse sensazioni di benessere e placidità regalateci dai Wilson, sono splendidamente rievocate grazie all’uso magistrale di un’elettronica calda, ricchissima di sfumature timbriche, aggettante e avvolgente. Non a caso il nostro ha riversato tutto su nastro magnetico. I pezzi sono strutturati da chitarre lievi e romantiche, filtrate certosinamente, che creano opachi sfondi ambientali su cui sfarfallano migliaia di elementi decorativi scintillanti. Un vero tripudio campionamenti misteriosi ultraprocessati, montati in sequenze altalenanti, loops dalla inafferrabile complessità, rumori sfilacciati, modulati, polverizzati, risucchiati in gorghi vertiginosi, come tempeste di sabbia lontane e rarefatte.Il delicato vibrafono sugli accordi che si stratificano e si compenetrano in “caecilia”, riempie il cuore di pace. Così come l'eleganza austera di "happy audio", che fonde ritmi esotici in una dimensione sospesa ed estatica, in cui i patterns impercettibilmente variano, si arricchiscono di nuances leggerissime, si accartocciano dolcemente per generare grappoli armonici che sfasano reichanamente, si confondono interagendo, cambiando gli accenti, esplorando l’infinità dei toni, l’elasticità del tempo.Si resta stupiti e instupiditi con "before i leave", collage composto da microparticelle di organo, vibrafono e chissà cos' altro, che formano frammenti tremolanti in una sequenza armonica lineare e imperfetta. Endless summer è una meravigliosa opera puntillistica compatta e intera, tutti i brani, pur essendo composti di monadi, concorrono a dare un’idea complessiva di unitarietà, un sogno ad occhi aperti di 45 minuti, anche se, si sa, il tempo è relativo.

Aldo Spavaldo

HER SPACE HOLIDAY/Manic Expressive/Wichita-Clearspot

Marc Bianchi prosegue il suo viaggio nelle atmosfere malinconiche di questo fine secolo, e lo fa con un album, “Manic Expressive”, semplicemente delizioso. La one-man-band Her space holiday si era già distinta con un esordio come “Home is where you hang yourself”, e Manic Expressive ne è la naturale prosecuzione, alla luce degli esperimenti elettronici di Bianchi (documentati dall’album di remix “Ambidextrous”). Alle chitarre liquide e lontane del primo disco, cariche di quelle atmosfere tristi e azzurre che hanno fatto la fortuna di gruppi come i Cocteau Twins negli anni ’80, e i Radiohead, i Portishead e i Massive Attack nell’ultima decade, si sono aggiunti ritmi elettronici, rumori di fondo e arrangiamenti d’archi ipnotici. E l’ipnosi sembra essere l’elemento caratterizzante di questa musica: arpeggi malinconici ripetuti, battiti lenti come un respiro, a creare un tappeto sonoro impalpabile ed etereo. Niente di particolarmente originale, insomma, ma è la qualità delle composizioni e soprattutto degli arrangiamenti a rendere il disco significativo. Arrangiamenti dolci, mai sopra le righe e sempre raffinati, arricchiti dai sussurri di Marc e Keely, che conducono l’ascoltatore in quel vortice di “quite desperation” che è la chiave dell’album. E quando arriviamo alla bellissima “perfect on paper”, quasi alla fine, la riconosciamo, e sappiamo benissimo che si tratta della beatlesiana “Dear Prudence”, ma è tutto un altro mondo, la nebbia che la avvolge l’ha trasportata (e con lei anche noi) sulla luna , in un estate blu notte.

Isidoro Meli

TARENTEL/The order of things/Neurot

Sebbene esca per l’etichetta dei Tribes of neurot, progetto esoterico sperimentale dei Neurosis, il nuovo lavoro dei Tarentel, non ha molto a che fare con l’immaginario caratteristico di Stiv Von Till e soci. Quell’incessante ricerca di uno spiritismo ancestrale, che normalmente anima le produzioni Neurot, qui é assente. O forse, meglio, si agita sottopelle, senza mai divenire fulcro dell’opera. Senza necessitare, quindi, di alcun veicolo esplicito, di nessun amuleto. The order of things é un percorso avvolgente ed estatico, lento, evocativo e marziale; riecheggiante tanto il dopo-rock progressivo dei Godspeed you black emperor, quanto le profondità abissali dei Dead Can Dance, i Rachel’s meno accademici ed i Talk Talk di Spirit of eden e Laughing stock. Popol Vuh é più di un atto di devozione, di un tributo, è una dichiarazione d’intenti: sfondo orchestrale, soffi di chitarre ed un’improvvisa sezione ritmica a spezzare l’ipnosi. E pura ipnosi, é quella in cui cala la voce femminea di Death in the mind of the living. Così come gli accordi reiterati e malinconici della brumosa Adonai. Giù, fino al limbo industriale di Blessed/Cursed. E’ qui che la terra produce i suoi spiriti, qualsiasi altra evocazione sarebbe di troppo. La musica dei Tarentel crea mondi immaginari, nei quali far scorrere i suoni da lei stessa prodotti. Suoni nebbiosi, ad un passo dal sepolcrale, dal gotico, ma ad anni luce da qualsiasi scena neo-dark. Distante perché vivo, in movimento, lontano dalla maniera, da qualsiasi ambito prestabilito.

Alessio Bosco

SCHLAMMPEITZIGER/Collected simplesongs of my temporary past/Domino

Il titolo non lascia spazio ai fraintendimenti: Jo Zimmerman, personaggio di culto della scena elettro-teutonica, rispolvera i suoi personali classici, abbracciando un arco temporale di ben quindici anni. Ed é quasi un paradosso che, in epoca di modernariato elettronico, episodi come Mango und Papaja auf Tobago o Mausefaltenfripp, dal forte sapore retrò già al concepimento (‘87), appaiano straordinariamente freschi ed attuali, oggi più di ieri, al pari di Plone e Plaid. Elettronica, quindi; povera, pezzente quasi. E geniale (vd. il maccheronico spy-movie soundtrack riecheggiare in Space agent Zimmerman). Fatta con niente, almeno nei primi tempi/brani: Casio Tone, quattro piste e poco altro. Synth e campionatori successivamente, ma con uno spiccato senso della parsimonia come valore acquisito. Quando la provenienza geografica é geneticamente influente: Colonia é già Kraftwerk. La centrale elettrica dispensa energia all’intera raccolta, unitamente a Residents, Telex e krauti vari in ordine sparso. Da questi ultimi, in particolare, sembrano provenire le melodie ariose di cosmica melanconia (Keine Sitar) e crucco umorismo (Hydraulicmeisterhalbtagstanz). Lo stesso umorismo da oktoberfest che porta un ingiustamente sottovalutato genietto pop fan dei Kiss, a nascondere le proprie generalità dietro il nome di uno strano pesce che respira col culo.

Alessio Bosco

BRIAN AGRO/Poems and Preludes/Percaso-RecRec

CHRISTOPH GALLIO, MOSIOBLO/A Robert Filliou/Percaso-RecRec

Ricevo e volentieri commento per voi le due nuove uscite di una delle più brillanti e "serie" etichette europee di Jazz: la svizzera PERCASO di Christoph Gallio. Agro è un dolcissimo musicista, privo delle "paranoie" cicliche di un Wim Mertens o della fin troppa "eleganza" di un Roger Eno. Nelle venti composizioni eseguite al piano da Tomas Bachli si respira l'odore forte della terra dopo un temporale, lo scampanellare immaginario di una mucca, il correre forte di un ragazzino dai calzoni corti, c'è senza dubbio una scarpa a bollire dentro ad un pentolone per pranzo. Sentimenti che non sono sentimentalismo, una musica dolce che non è ricattatoria e incupimenti improvvisi, meditazioni, discese nel buio della notte, una luce, una lampada, un lampo, qualcosa da vedere e non vedere. Discorso diverso per il disco del patron Gallio, eccelso sassofonista che in questo caso lascia gran parte del "lavoro" alla bravissima mezzosoprano Sarah Maurer. Dicevo che il discorso è diverso perché l'approccio è senza dubbio più celebrale, più mediato, se vogliamo più colto e anche più "paranoide". Immaginate gli Art Bears intervallati da improvvisi silenzi che suonano come una fuga dalla limpida gioia che Sarah sa regalarci. Un madrigale, un inno alla vita e poi la domanda: può essere così bello? Perché oggi sono felice?

Fanfarello

BUELLTON/Avenue of the Flags/Filmguerrero

Ottimo passatempo sonoro, frutto di quella miscela ben riuscita fra le melodie pop di matrice britannica e la vena armonico-psichedelica che ha contagiato una parte della provincia californiana in questi ultimi tempi. Una miscela sperimentata fra i primi dai Grandaddy e via via raffinatasi fino ad assomigliare sempre meno alla formula originaria, pur conservando il “retrogusto”. Un prodotto dalle mille sfaccettature, in cui il gruppo californiano dimostra di saper attingere con parsimonia ed intelligenza dall’ampia gamma di stili e tendenze che l’universo pop ha saputo recentemente esprimere. Sorprendente il fatto che i Buellton siano alla loro prima uscita ufficiale, e che abbiano “confezionato” questa piccola perla in casa propria, con il solo ausilio di un dodici tracce. Se le modalità di incisione e la tecnica vocale utilizzate dalla band richiamano in molti episodi l’accostamento con gli ultimi (mitici) Flaiming Lips, forse dal punto di vista dell’esecuzione e della composizione dei brani il paragone più immediato che passa per la mente ascoltando le open tracks “Single” e “Dark” è quello con i Gomez o, nel caso di “What do you Suppose” e “Pistolgal”, con gli emergenti Travis. Fantastico il finale di tastiere chitarre e batteria di “Grammys ’97” che, posto alla fine del cd, rappresenta forse la migliore sintesi di tutto questo album, dove le esplosioni di energia non si traducono mai in foga espressiva, ed anzi l’impianto strumentale si amalgama perfettamente con la vena poetico-narrativa dei testi.

Roberto Baldi

JAH WOBBLE & DEEP SPACE/Largely live in Hartlepool and Manchester/Materiali Sonori

Anche Jah Wobble si ripropone al pubblico con un doppio live, e si tratta di un lavoro mastodontico. I mitici tempi dei P.I.L. sono lontani, e il basso più oscuro di tutto il rock ha ormai raggiunto lande lontane. L'idea di fondere atmosfere dark e musica etnica è giunta a compimento, e in brani come "They were planning murder" o "Slow" l'artista, con i suoi "Deep Space" si lancia in glaciali intrecci sonori con ritmi lenti e impassibili, la chitarra che martella linee ipnotiche e gli altri strumenti in assoluta libertà. E' come un immenso rito tribale, mistico e inquietante, trasferito in una metropoli occidentale. Immenso.

Isidoro Meli

ART ZOYD/u.B.I.Q.U.e/In-possible

Art Zoyd, gruppo francese di avant-rock fondato nel 1968 e autore nel corso della sua carriera anche di colonne sonore per il teatro e per il cinema (“Nosferatu” di Murnau), è divenuto nel tempo un vero e proprio laboratorio sperimentale che attraverso la creazione di opere di musica sinfonica ed elettronica valorizza i legami tra arte musicale, arti sceniche e nuove tecnologie, offrendo allo stesso tempo una possibilità di crescita artistica a giovani musicisti ancora sconosciuti. Se tutto questo non bastasse a suscitare interesse nei confronti dei lavori di Art Zoyd, ecco un’opera monumentale come u.B.I.Q.U.e: quattro anni di lavorazione e sedici tracce per 73 minuti di musica suonata da un’orchestra di 50 elementi (17 chitarre, 6 bassi, 5 sassofoni, 5 trombe, 3 tromboni, una tuba, 12 batterie, percussioni e campionamenti elettronici)! u.B.I.Q.U.e, composto da Gérard Hourbette (uno dei membri storici di Art Zoyd) per illustrare in musica il libro di fantascienza “Ubik” dello scrittore statunitense Philip K. Dick, è un poema sinfonico diviso concettualmente in due parti: “Glissements progressifs du plaisir” (Scivolamenti progressivi del piacere, dal titolo di un film sceneggiato da Alain Robbe-Grillet) e “Métempsycose” (Metempsicosi, la reincarnazione delle anime). L’orchestra di Art Zoyd esegue un requiem apocalittico scandito da ritmi claustrofobici e ossessivi (“Zoïle ou les cités électriques”, “La chute des anges”, “L’adoration des mages”) e da episodi di drammatica potenza (Activités prédérivées). “u.B.I.Q.U.e” dal latino “ubique”, “che è ovunque, in ogni luogo”, ed infatti esperimenti di inquieto rumorismo ambientale come “Septima du Centaure”, “Apparition de l’église eternelle”, “Compartment 14/128 caisson terminal” e “Portuarie” evocano non spazi fisici, ma sconfinati luoghi della mente nei quali si vaga smarriti alla ricerca di se stessi. In “Réve de nettete absolue” vengono campionati un respiro cavernoso, rumore di passi lungo un corridoio infinito, strilli di gabbiani in volo al di sopra del mare: immagini che emergono improvvisamente da un inconscio torturato dai rimorsi, dai dubbi, da traumi infantili. A tratti affiorano voci umane, ma sono solo sussurri per niente rassicuranti, come un disperato monologo interiore. Paure ancestrali prendono forma nel buio; ineluttabile si compie il destino dell’uomo.

Guido Gambacorta

A TRIBUTE TO THE SMITHS/AA.VV./There is a light that never goes out/Speedway

Inviolabile. Così ho sempre considerato il repertorio degli Smiths, e a giudicare dalla gente che ci ha sbattuto il muso (con pochissime rare eccezioni come i Quicksand o gli E.B.T.G.) probabilmente non a torto. Perché le canzoni di Morrissey e Johnny Marr vibravano di quell'alchimia perfetta che è impossibile da replicare togliendo anche solo uno degli elementi coinvolti (vedi i tristi esperimenti solisti dell’uno, le estemporanee sortite dell'altro), figurarsi entrambi. Che senso può avere dunque un "tributo agli Smiths"? Perdipiù realizzato da chi, come l'editore di Speedway, la fanzine italiana dedicata al culto del gruppo di Manchester, li ha amati con tale profondità ed accanimento da dedicare loro una parte abbondante della propria vita e sa quindi di cosa sto parlando? Semplice: un atto di amore, di rispettosa devozione verso "quelle canzoni che ti hanno fatto sorridere e di quelle che ti hanno salvato la vita". Lo sanno benissimo tutti e per primi i ventuno gruppi qui coinvolti che nessuna di queste riletture vale uno solo dei riffs di Johnny Marr, uno solo degli aforismi di Morrissey e che mai nessuna cover potrà sostituirsi all'originale nel cuore dei molti amanti del repertorio smithsiano. Perché gli Smiths chiedevano, senza volerlo, tutto. O dedizione totale, o antipatia cieca e disperata. Lo sapevano certo già prima di metter mano sopra a ognuna delle tracce qui presenti. Eppure eccoli lì, a omaggiare gli eroi del pop inglese, ognuno a proprio modo con risultati, cercando di farne una analisi obiettiva e quindi decontestualizzandoli da quanto sopra espresso, il più delle volte apprezzabili. Dunque rinviato, poi rinviato e quindi ancora rinviato, quando il suo destino sembrava essere quello di venire sbriciolato e dissolto in polvere nelle varie uscite autoctone delle bands coinvolte (è già successo con 3 A.R.M., Ossessione, Sybil e coi Divine che non hanno resistito alla tentazione di includere "Death of a Disco Dancer" nella ristampa del loro debut album, NdLYS), eccolo infine il tributo voluto da Fabio D'Antoni. La sua ostinazione ha avuto la meglio e il risultato, godibilissimo, con una parte interattiva fitta di notizie (un ricco elenco di copertine, libri, dischi, video, cover versions, curiosità, addirittura delle incisioni abrasive sui vinili, etc.) e complementare ad un libro dallo stesso titolo di prossima uscita, è ora tra noi. Andando nel dettaglio, tra le vette del disco spicca il sussulto hardcore dei disciolti Eversor con una versione maestosa di "I want the one I can' t have" che sono certo il giovane Morrissey, accanito seguace di Slaughter and the Dogs e N.Y. Dolls apprezzerebbe, bella pure la trasfigurazione ritmica operata dai Bokassa su "That joke...". Ai Northpole e agli E 102 l'onore di cimentarsi con due tra le pagine più rare e anche più belle del catalogo Smiths: "Jeane" e "Wonderful Woman" sono ancora splendide, pur tra le sfuriate low fi dei primi e il risvoltino in loop dei secondi. Peccato piuttosto che molti sembrino paralizzati dal confronto (Yo Yo mundi, Errata Corrige, More, Claudia Pastorino tra gli altri) e non aggiungano molto a quanto gli originali descrivevano e solo in pochi si arrischino a sovvertire il primitivo assetto melodico-timbrico, dando prova di fantasia e non solo di mestiere (i Monow ad esempio: "William..." la riconoscerete solo dal titolo, o i 3 A.R.M. che trattano "Ask" come gli Innominati facevano con i Doors, NdLYS). Come in ogni operazione analoga si passa quindi da letture belle (Northpole, Mirabilia, Haggis, Le Madri, Eversor, ecc.) ad altre meno (la "Meat is murder" della Pastorino davvero bruttina) a talune semplicemente superflue e che spero spingeranno a riscoprire fuori tempo massimo una delle più grandi pop bands del XIX secolo, proprio una di quelle da isola deserta, se ce n'è ancora una su cui è possibile arrivare senza dover infilare i piedi nel bitume.

Franco "Lys" Dimauro

SNOWPONY/Sea Shanties for spaceships/Dead Pan Alley

Le chitarre liquide che aprono la straniante “Crumbled 10” esprimono appieno il mondo Snowpony: canzoni sofisticate, con arrangiamenti obliqui e una continua ricerca per la melodia non banale. Niente suoni “easy” alla Stereolab, quindi, mentre s’intravede qualcosa dei My Bloody Valentine (ma con quale guitar-band non accade?): ai riferimenti commerciali più diretti il gruppo preferisce la ricerca di un suono proprio. L’operazione riesce a metà. Se “Amsterdam”, la già citata “Crumbled 10” e ”Brown Hotel” suonano “importanti”, e “Pleasure Gardens” chiude il disco in grande stile, in altri momenti la band perde la bussola e quasi abbandona la forma-canzone concentrandosi sugli arrangiamenti. E, se non ti chiami Robert Wyatt, è meglio non farle queste cose. Il disco è bellissimo, ma poteva essere un capolavoro. Aspettiamo il prossimo.

Isidoro Meli

QUASI/The sword of god/Domino

E' un po’ triste notare che la critica più autorevole, in Italia, dia un “voto”, per ogni disco recensito, come se fossimo ritornati a scuola. Il che ha tutto il sapore della sentenza inappellabile al posto di essere un commento obiettivo filtrato dalla sensibilità personale. Il terzo disco per la domino degli anacronistici Quasi non sarà un capolavoro, non segnerà certamente la storia, sarà pure l'ennesima stronzata basata sui cliché pop-rock anni '6o registrata con mezzi poveri in un garage, ma non mi sembra giusto liquidarli con sufficienza e boria professorali solo perché attualmente sono più trendy le seghe elettrificate. Per quanto i Quasi siano morti che suonano autisticamente musiche morte, il risultato è molto più vitale di quanto il cosiddetto post-rock non sia, per fare un esempio a caso. Io non trovo niente di male nella testardaggine infantile di suonare nostalgicamente “alla maniera di”, visto che non si rilevano pretese intellettualistiche atte a riscrivere o riattualizzare un genere, e celebrare i personaggi di cui hai pure i posters nella camera da letto da quando sei ragazzino, con una leggerezza ed ingenuità imbarazzanti. “Rock and roll can never die” (appunto), mi sembra esemplare per descrivere questo atteggiamento gioioso e riverente, col suo innocuo riffettone demente tra who e stones, partite di ping pong, cazzatelle elettroniche e cornamuse.“Fuck Hollywood” mette in scena tutta una serie di passaggi armonici beatlesiani, bellissimi nella loro scontatezza. “It's raining”, che sembra fatta da dei platters rincoglioniti, si chiude con dei cori incantevoli."The sword of god" (che simpatia!) sono i Byrds rockeggianti che, dopo qualche giro felice e spensierato, precipitano in una specie di "i want you" di lennoniana memoria, popolata ci cinguettii d’uccelli floydiani.Se “A case of no way out” l'avesse fatta Sean Lennon con le cibo matto, nessuno avrebbe avuto niente da ridire. Purtroppo la seconda metà del disco è decisamente più inconsistente a livello compositivo, ma, francamente, non me la sento di rimandarli a posto colla faccina triste. Quindi, visto l’impegno e la simpatia che mi ispirano (ricordiamoci che alcuni prof. premiano a volte le tette delle studentesse), metto loro un bel... (MDD: "niente voti su SuccoAcido").

Aldo Spavaldo

SPOKANE/The Proud Graduates/Jagjaguwar

Sdraiati sul letto, con gli occhi chiusi e la sola luce di un pomeriggio d’autunno ad illuminare la stanza, non appena la musica inizia a scivolare fuori dalle casse dello stereo, la mente plana sulle highlands scozzesi e non le abbandonerà fino all’ultima nota di questo cd. Immaginate una session alla quale partecipano, in ordine sparso, componenti dei Belle & Sebastian, dei Mogway e dei Sophia. Immaginate che sia stato raccomandato loro di lasciare a casa quasi tutto il loro armamentario elettrico ed elettronico. Se ci riuscite, il risultato che otterrete è forse la migliore descrizione di quello che gli Spokane esprimono in queste otto tracce. Una raccolta di poesie struggenti ma non malinconiche, recitate in punta di voce ed accompagnate da melodie dolcissime, in cui arpeggi di chitarra e fraseggi di archi sono supportati da ritmiche essenziali dove la batteria viene “accarezzata” esclusivamente con le spazzole. Un esempio magistrale di quello che si potrebbe definire “pop da camera”, ideale per il relax della mente e fortemente consigliato ai romantici presenti ad ogni latitudine del globo.

Roberto Baldi

DNTEL/Life is full of possibilities/Plug Research

Glitch‘n’bleeper di seconda generazione; quella cioè che, partendo da modalità care alla microelettronica di confine, approda a vere e proprie soluzioni melodiche. Affiancato da uno stuolo d’ospiti più o meno noti (Rachel Haden, Meredith Figurine, Brian McMahan...) Dntel aka Jimmy Tamborello, compone, attraversando quasi tutto lo scibile della nuova musica sintetica, un album estatico, soporifero, poggiante su lunghi drones ambientali così come da discrete accelerazioni ritmiche, continuamente interrotto da sfrigolii elettrici e supporti saltellanti, ma umanizzato da una sensibilità, innegabilmente, pop. Quasi bucolico nella tautologica conclusione affidata a Last songs; mantrico in Umbrella ed Anywhere anyone; improvvisamente electro in Fireworks e dub nella titletrack; perfettamente a suo agio in un ipotetico Trainspotting 2001 (The dream of Evan and Chan); con un occhio puntato sull’Islanda e l’altro su Louisville (Why I’m so unhappy). Non possiede l’appeal intellettuale di un Fennesz e, certo, per potersi distinguere in futuro, dovrebbe saper mirare a soluzioni più personali. Un bell’esordio, comunque.

Alessio Bosco

SCISSORFIGHT/Mantrapping for sport and profit/Tortuga

Crunch, crunch, crunch... il quinto disco degli Scissorfight suona esattamente crunch. Su “ Mantrapping for...” crunchia tutto dall’inizio alla fine. Crunchia il basso, la batteria ma soprattutto crunchiano le chitarre, di un suono fortemente saturo, simili per capirci a quello che caratterizza le ultime produzioni degli Entombed. La voce invece puzza di alcool da fare paura, perfetta nell’avvolgere di fumi etilici le atmosfere profondamente southern di questo disco che trasuda blues. Ed infatti agli Scissorfight riesce benissimo, oltre l’essere dei perfetti redneck, anche lo stare con i piedi nelle due scarpe dell’heavy rock e del blues, con lo stesso approccio che Jon Spencer ha alla materia in questione e costruendo nel contempo un mastodontico muro del suono. I pezzi scorrono e la testa si dondola da sola, impossibile resistere al groove che serpeggia costantemente in qualsiasi brano di questo disco. Elementi essenziali all’ascolto: un divano qualunque e una bella boccia di Jack Daniels.

Francesco Imperato

ATOMBOMBPOCKETKNIFE/God Save the ABPK/Southern

Buon disco questo degli ABPK, di sicuro una bella sorpresa per gli appassionati dell'indie-postcore più radicale (nonostante i nostri spacciassero questo lavoro come più sperimentale rispetto degli altri... uhm...). Il tutto scorre bene fino alla fine, a tratti adrenalinico, a tratti piacevole, anche se troppe volte la band di Justin Sinkovic sembra sfiorare il plagio, avvicinandosi troppo a certi "grandi" referenti (Fugazi e Unwound su tutti). Ma il tutto è equilibrato con altrettanto ottime idee e davvero una notevole coesione sonora. Forse sono proprio gli inserti "sperimentali" che stonano un pochino, troppo sterili rispetto a tutto il resto. E poi... un pezzo memorabile su tutti: The Metadhone Actors, muri di chitarra in stile Husker Du, cantato indie filtrato, un pezzo davvero micidiale, energia pura. Anche Tripwire Tonight parla lo stesso linguaggio, sfacciato post-core punkeggiante che mostra i coglioni della band. La sesta traccia è più delicata, sussurrata - ancora, quasi a imitare i Fugazi che in The Argument fanno una puntatina in territorio soft - attinge a piene mani dall'indie cantautorale. C'è anche dire che a volte questi annoiano un po', soprattutto dopo tanti anni di Post-core trito e ritrito filtrato dalle nostre ormai scassate ed esperte orecchie. Senz'altro è ora di cambiare, per non sprecare potenzialità ancora irrisolte, per far ri-fiorire una scena indie un po’ spaesata, insomma - facendo il verso al titolo, che dio ce li salvi, davvero.

BakuniM

CAVITY/On the Lam/Hydrahead

Esasperante, affascinante, lancinante sono tutti aggettivi che si ritagliano a misura di band nell’ultimo lavoro dei Cavity “ On the Lam”, un viaggio intensissimo lungo nove tracce verso l’ossessione fatta musica. Rabbia, il furore, l’ira sono tutte figlie di una stessa mamma, la violenza, che ha adottato anche questi americani di Tampa e ha dato loro una missione ben precisa, quella di centellinare la furia e di somministrarla poco per volta alle proprie vittime. I Cavity si dimostrano alla assoluta altezza del compito e ci ricamano su tutto un disco. I nostri si inseriscono sulla scia di bands americane che stanno gettando nuove basi per una ridefinizione del suono e dell’attitudine hardcore che, nelle personali visioni di altre bands come Old Man Gloom, Botch, Cave In, gli europei Breatch, riduce ancora il già esiguo distacco dal metal recuperando da esso lo spirito originario di musica estrema senza rimanere invischiati nel baraccone mediatico di certi fantocci di oggi. Sempre meno fratellanza tout court e una maggiore attenzione alle problematiche del contatto/contrasto dell’uomo con il suo habitat sono le premesse ideologiche. E se il contrasto e il conflitto col proprio territorio prende il sopravvento, musicalmente ne esce il deragliamento sonoro di “on the lam”. Visioni eloquenti di questo approccio sono “ boxing the hog”, “ sung from a goad” e la title-track stessa che scandagliano le parti più nere dell’animo umano con un suono martellante, onnicomprensivo su cui si staglia una voce strozzatissima e affilata. Ma “on the lam” mostra anche come i Cavity riescano bene a maneggiare un altro aspetto della violenza ossia lo strazio che accompagna la realizzazione della stessa e lo fanno imboccando un inusuale sentiero doom di cui i sette minuti e trentatré di ossianica lentezza di “ pulling up the stakes” o l’intensa “leave me up” ne sono le prove inconfutabili. In definitiva, con i Cavity si assiste alla perpetuazione di un concetto come quello del travaglio interiore che irrompe in brutalità gratuita che rimarrà ben presente nella musica estrema finché l’uomo avrà ancora piede su questa terra.

Francesco Imperato

 


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