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Cinema - Authors - Interview | by SuccoAcido in Cinema - Authors on 12/07/2013 - Comments (0)

 
 
 
Vincenzo Mineo

Il dono di Vincenzo Mineo, regista siciliano di film documentari e cortometraggi, è senza dubbio la pazienza. Nei suoi film, la macchina da presa insegue i protagonisti senza fretta. I marinai di una nave petroliera da Rotterdam a San Pietroburgo in Cargo, così come gli anziani ricoverati in un ospedale geriatrico in Zavorra, sono ritratti all’interno delle loro quotidianità, con lentezza, senza l’ansia di dover dire o significare qualcosa al di là della loro evidenza. Eppure, la potenza delle immagini è tutto. Lo scorrere della vita di un anziano malato e solo, i dettagli di quell’esistenza attentamente ritratti dallo sguardo dell’autore rendono la sua storia quasi insopportabile, esattamente com’è insopportabile, forse, la vita e il suo lento scorrere per tutte quelle persone costrette a stare lontane dai propri cari e da tutto ciò che sono state in passato. Mentre fuori splendono il cielo e il mare di Trapani e passano le navi dirette verso mete ignote, i protagonisti di Zavorra restano immobili, depositati in un angolo. Sono scomode le immagini delle loro piaghe e delle loro bocche sdentate, esattamente com’è scomoda la loro presenza in una società in cui è necessario produrre pur di avere un posto dignitoso nel mondo. Vincenzo lavora soprattutto come aiutoregista, la sua carriera di documentarista procede lentamente ma in maniera corposa e seria. Un detto ghanese afferma che ogni cosa che cresce lentamente mette radici profonde: potremmo dire, allora, che il passo del nostro autore con il tempo s’immerge in maniera sempre più profonda nel terreno arduo e meraviglioso dell’arte e non possiamo che augurarci che continui a esplorarlo, raccontandoci ancora una volta, senza pudore e senza menzogne, inenarrabili storie di solitudine umana.

 
 

SA: Vincenzo, da Trapani al Mondo. Parlaci del tuo percorso di vita e professionale, di cosa ti ha portato a Roma e della tua evoluzione artistica in questi anni di esodo.
VM: Il Cinema è la passione della mia vita, da sempre. Dopo il Liceo mi sono trasferito da Trapani a "La Sapienza" di Roma per studiare Storia del Cinema. In quegli anni ho visto molti film e frequentavo corsi di regia anche al di fuori dell'Università. Finiti gli studi, ho avuto l'occasione di far parte della troupe di un film, come assistente alla regia e autore del backstage. Non vedevo l'ora che accadesse, si trattava di un'opera prima (Quello che cerchi di Marco S. Puccioni) e io ero la persona più felice del mondo: si realizzava il mio sogno, quello di lavorare sui set. Questo "sogno" va avanti da tredici anni, tra cinema e fiction ho collaborato come assistente alla regia, tra gli altri, con autori come Ciprì e Maresco, Luca Miniero, Costanza Quatriglio, Claudio Cupellini, Gianni Zanasi, Roan Johnson, Francesco Lagi. Il lavoro sui set mi ha dato col tempo la possibilità di confrontarmi con problematiche artistiche e produttive, di mettere a fuoco la mia esigenza di racconto e di conoscere professionisti che mi hanno aiutato a portare avanti i miei progetti. Nei primi anni, diciamo tra il 2000 e il 2007, nelle pause tra un set e l'altro ho cercato di realizzare piccoli video, corti e documentari "di formazione", esperimenti che mi hanno permesso di portare avanti una ricerca, di forma e di linguaggio, tra cui Shalòm (doc. 2000 - minidv - 9') sulla pesca del tonno a Favignana; I'm in the mood for love (doc. 2001 - minidv - 3') sul Gay Pride del Giubileo a Roma; Tang.Est (doc. 2003 - minidv - 3'), un breve ritratto di un senzatetto; Levanzo (cm. 2006 - 18' - dvcam), un cortometraggio sulla piccola isola e su un uomo che la percorre in cerca di una nuova identità.

SA: I temi affrontati nei tuoi ultimi film sono profondi e invitano alla riflessione. Parlaci della necessità, delle ragioni che sottendono le tue scelte narrative.
VM: Negli ultimi anni ho deciso di dedicare più tempo ai miei lavori perché finalmente alla ricerca formale si è aggiunta una vera e propria esigenza di affrontare certe tematiche. Sono nati così i documentari Cargo (doc. 2010 - HDV - 48') e Zavorra (doc. 2012 - HDV - 49'), che sicuramente hanno acquisito rispetto ai lavori precedenti una maturità, una riconoscibilità e un’attenzione maggiori. Cargo è un documentario che racconta la vita a bordo di una nave petroliera nei mari del nord, Zavorra invece racconta la vita degli anziani all'interno di un ospizio a Trapani. Sembrano due argomenti diametralmente opposti, invece hanno molto in comune, sia per questioni personali/soggettive, sia per altre più oggettive. Mio padre per circa trenta anni ha lavorato a bordo di navi petroliere ed io lo vedevo per uno o due mesi l'anno: Cargo è stato come una terapia per me, ho dovuto farlo, è stato il mio complesso di Edipo, raccontare la vita a bordo era il pretesto per raccontare il rapporto con mio padre. E poi Zavorra, che invece parte da un mio rammarico, quello di non aver filmato/testimoniato i miei nonni, la loro memoria e la loro malattia. In Zavorra osservo la vita degli anziani in un ospizio, un argomento, quello della vecchiaia, che secondo me è considerato un tabù, poco affrontato perché scomodo. Meglio lasciar perdere gli anziani, malati e oramai poco lucidi, in questa fase ultima della loro vita. Che senso ha "vederli" o "sentirli"? Invece io credo che anche loro, come tutti, abbiano ancora una dignità, un corpo e una voce. Queste le sensazioni rispetto a un’esigenza personale. Per quanto riguarda il discorso "oggettivo" in entrambi i casi si tratta di "isole", e in generale di condizioni di isolamento. In Cargo la petroliera, isola in movimento abitata da marinai e ufficiali abituati alla solitudine, che per mesi o addirittura anni vivono lontani dalla famiglia, dagli affetti, dalla terraferma. In Zavorra un’altra comunità di persone che vive in "isolamento", quella degli anziani in un ospizio. L'ospizio stesso a Trapani si trova in un contesto isolato, lontano dal centro abitato, circondato dal mare e dalle saline, un'isola vera e propria. Questi sono argomenti che mi piacerebbe continuare ad affrontare, non ho problemi a farne cenno, ognuno interpreta gli argomenti attraverso la propria visione e sensibilità. Potrebbe trattarsi della vita di poche persone, perlopiù pescatori, su una minuscola isola del Mediterraneo; o di un uomo che vive e lavora come custode di un faro in Croazia; la vita nomade di un Circo; una stazione di scienziati in Antartide… Queste sono alcune idee, in apparenza eterogene, che nutro sul medesimo argomento: l'essere umano innanzitutto, posto in una particolare situazione di isolamento. Non si tratta di film "di documentazione", di approfondimento, simili a reportage televisivi, ma di lavori che guardano più alla pura osservazione, all'istinto, alla poesia, al Cinema. Questo modo di procedere, istintivo, senza aver precedentemente scritto, senza aver preparato domande per interviste, senza una apparente progettualità, ebbene questo metodo di lavoro, fatto di pura osservazione della realtà, è quello che prediligo; secondo me esclude la possibilità di dare un giudizio “a priori” e di fare esclusivamente parlare quello che hai davanti. E chi vede questi lavori, a sua volta, è più stimolato alla riflessione, non è costretto a seguire il punto di vista prefissato dall'autore, ma partecipa della visione rispetto alla propria esperienza.

SA: A cosa serve, dunque, fare documentari?
VM: La parola documentario si può coniugare in tanti modi, esistono decine di modi di poterlo fare, naturalistico, di inchiesta, reportage, “mockumentary”, “creativo”, sperimentale, d’attualità, ecc. E tutti sono a loro modo utili e interessanti, se realizzati con criterio e un’idea precisa; spesso servono per approfondire un discorso o per avere un versione dei fatti più fedele alla realtà rispetto ovviamente alla fiction, che invece la realtà la interpreta e la trasfigura. Si tratta di una questione soggettiva, di quello che interessa di più realizzare o vedere. A me interessano i documentari che guardano più al Cinema che all’impianto televisivo della sponda intervista/inchiesta/reportage, quelli che ri-cercano un proprio linguaggio e una propria estetica, che cura le immagini sempre in aderenza all’argomento trattato. Chi fa documentario “di creazione” ha una libertà più ampia di azione, la troupe è spesso ridotta al minimo (operatore, fonico) e permette di muoversi agevolmente nello spazio e nel tempo e di essere il più possibile “invisibile”. Nella maggioranza dei casi si tratta poi di opere autoprodotte, per cui l’autore ha la possibilità di sperimentare, di mettersi in gioco e in ascolto senza dover necessariamente pensare al compromesso con un pubblico, con una vendita televisiva o con una committenza a cui necessariamente bisogna rendere conto. Bisogna rendere conto solo a se stessi.

SA: Cosa succede sulla scena nazionale a livello di cinema indipendente? Come fa quest’ultimo a sopravvivere alla diffusione dei blockbuster?
VM: Il cinema indipendente è sempre esistito e sempre esisterà, sopravvivendo ai film commerciali in genere. Purtroppo non ha mai avuto e mai avrà il numero di sale e le distribuzioni adeguate. Si tratta appunto di sopravvivenza, ma ci sarà sempre un pubblico per questo cinema, per cui per fortuna non c'è il rischio che possa non esistere. Il cinema indipendente costituisce un’occasione rara per conoscere nuove forme di narrazione e di linguaggio. In termini nazionali, penso a quello che hanno fatto ad esempio Ciprì e Maresco o Davide Manuli, e più recentemente Pietro Marcello, Michelangelo Frammartino, i De Serio, o documentaristi meno noti ma assolutamente innovativi come Gianfranco Rosi, Adinolfi e Parenti, Giovanni Cioni, Giovanni Giommi, Stefano Savona. Chi segue certo cinema indipendente è in genere un pubblico più “colto”, fatto spesso da addetti ai lavori, da studiosi o da veri appassionati, che trovano i propri canali di visione tra cinema d'essai, seconde visioni e cineclub, andando in giro per rassegne e festival o, più comodamente, su internet. Il problema è chiaramente culturale, bisognerebbe fare un lungo lavoro di “alfabetizzazione” fin dall’inizio, ad esempio già a scuola abituare i ragazzi al fatto che esistono visioni alternative a quella a cui ci hanno abituato da decenni con la televisione e col cinema commerciale. E che esiste un cinema in generale (film indipendenti, documentari, sperimentali, videoarte) che ci permette di riflettere e di partecipare attivamente a una visione, in alternativa allo sguardo passivo e lobotomizzante al quale ci vorrebbero conformare.

SA: Cos’è che non sopporti nel cinema?
VM: Non sopporto chi mortifica se stesso e l’intelligenza del pubblico facendo cinema per compiacere e compiacersi, pensando a eventuali riconoscimenti o al successo commerciale. Mi interessa esclusivamente chi fa il cinema con onestà e passione, con una reale esigenza di racconto e di ricerca.

SA: A cosa stai lavorando adesso e qual è il film che vorresti fare domani?
VM: Il mio mestiere rimane principalmente quello di aiuto regista, ho appena terminato un lavoro sul set della nuova commedia di Luca Miniero (Benvenuti al Sud / Benvenuti al Nord), e a luglio ne inizio un altro per una fiction Rai. Se avrò dei progetti (e, come accennavo in una risposta precedente, alcune idee le ho), che possono riguardare indifferentemente un documentario, un corto o un film, inseguirò e cercherò di portare a termine quello che più degli altri non mi farà dormire la notte, deve essere per me un’esigenza, un dovere farlo. Se così non fosse andrò tranquillamente avanti con il mio mestiere di assistente alla regia. Se invece avrò questa "necessità" di fare un altro film, allora avrà un senso andare avanti, perché è fondamentale per me rispettare questa etica. E in genere, quando c’è, l’onesta viene in qualche modo riconosciuta.

 


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Copyright in Italy and abroad is held by the publisher Edizioni De Dieux or by freelance contributors. Edizioni De Dieux does not necessarily share the views expressed from respective contributors.

Bibliography, links, notes:

pen: Frank Angelo, Marta Ragusa

links: www.cinemaitaliano.info/pers/025385/vincenzo-mineo.html

 
 
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