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Theatre - Theatre Festivals - Review | by Marta Ragusa in Theatre - Theatre Festivals on 05/12/2012 - Comments (0)

Just intonation from Masqueteatro on Vimeo.

Pentesilea from Masqueteatro on Vimeo.

 
 
 
Crisalide XIX

Winter years, il progetto triennale di esplorazione filosofico artistica del festival, giunge quest’anno a conclusione avendo come oggetto l’individuazione di una possibile “via di fuga” dai quotidiani e sempiterni processi di normalizzazione attuati dal potere che mette ordine, devitalizzandoli, agli innumerevoli percorsi minoritari intrapresi dall’essere umano. Minorità, normalizzazione, fuga. Ma cosa significa “fuggire”? Quella che viene suggerita come possibile alternativa alla paralisi che contraddistingue l’epoca contemporanea non è una soluzione né nichilista né autodistruttiva. Non comporta, come la parola fuga potrebbe indurre a pensare, una sottrazione, una negazione, quanto piuttosto una forma di resistenza.

 
 

Attraversando la pianura Padana lentamente, in treno da Bologna verso Forlì, il verde della campagna, nonostante sia ancora estate, comincia a macchiarsi a poco a poco di nebbia, a diventare pallido. Quello che era chiaro, adesso, è avvolto da una sottile inconsistenza grigia. È così che ci si sente avvicinare a Crisalide, alla silenziosa fucina del pensiero che Masque Teatro installa tra le oscure pareti dell’ex Filanda, a Forlì. Winter years, il progetto triennale di esplorazione filosofico artistica del festival, giunge quest’anno a conclusione avendo come oggetto l’individuazione di una possibile “via di fuga” dai quotidiani e sempiterni processi di normalizzazione attuati dal potere che mette ordine, devitalizzandoli, agli innumerevoli percorsi minoritari intrapresi dall’essere umano. Minorità, normalizzazione, fuga. Ma cosa significa “fuggire”? Quella che viene suggerita come possibile alternativa alla paralisi che contraddistingue l’epoca contemporanea non è una soluzione né nichilista né autodistruttiva. Non comporta, come la parola fuga potrebbe indurre a pensare, una sottrazione, una negazione, quanto piuttosto una forma di resistenza. Rocco Ronchi, ospite del festival e professore ordinario di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi dell’Aquila, parla di resistenza non in termini di reattività né di opposizione che nasce da un attrito e che, quindi, dipenderebbe da ciò a cui si oppone. Si tratta piuttosto di una resistenza speculativa, di un ritorno del pensiero alla sua funzione critica. La domanda che ci si pone e che Masque propone come punto di partenza per questa diciannovesima edizione del festival è How shall I act?, come devo comportarmi? Non cosa devo fare o come devo agire, bensì “cosa c’è di riducibile nella mia visione del mondo”. Per riprendere le parole di Ronchi, come fare a divenire resistendo a un falso divenire? Il divenire sul quale ci si interroga prenderebbe forma proprio attraverso la fuga che non è quindi un ripiegamento ma una ricerca profonda che non può che avvenire in un territorio altro, "fuori". Ma cos’è questo territorio altro da noi, questo fuori, se non la realtà stessa? La realtà è, in fondo, il terreno sul quale il nostro esercizio critico ha smesso di speculare da troppo tempo ormai, impegnato com’è stato nello studio di se stesso, in una spasmodica e immobilizzante introversione dello sguardo. Il “fuori” è qualcosa che non dipende da noi, Ronchi lo definisce l’assoluto, in quanto assolto, irrelato, che esiste indipendentemente dal soggetto che vi si relaziona. Niente di trascendentale, dunque: l’assoluto è il reale nel quale il soggetto è immerso e del quale il soggetto è parte integrante “sebbene tale reale sia molto più vecchio di lui e non correlato alla sua coscienza”. Il soggetto, in tal modo, recupera il suo status di piega del mondo, di cosa tra le cose. Crisalide ci offre questa prospettiva, dichiarandosi come spazio di creazione, con tutta la potenza di sovversione che questa parola porta con sé. Quello che Lorenzo Bazzocchi dichiara essere l’obiettivo del festival è “la reale produzione di pensiero”. In tal senso, gli interventi dei filosofi partecipanti alla giornata di studi non possono prescindere dagli interventi artistici. Né gli uni né gli altri, a Crisalide, dovrebbero essere mera esposizione o mera rappresentazione, quanto piuttosto occasione di creazione, riprendendo anche il concetto di Gilles Deleuze della filosofia come gesto. Di fatto, questa pretesa, questo intento, è sommamente arduo. I limiti imposti dal tempo e dalla rappresentazione stessa sono ben precisi e insormontabili. Il susseguirsi degli interventi dei filosofi invitati alla giornata di studi coordinata da Sara Baranzoni (Paolo Vignola, Katia Rossi, Fabio Polidori, Ubaldo Fadini, Silverio Zanobetti, Tiziana Villani e Bernard Stiegler, quest’ultimo via etere), è stato come un insieme di discorsi a parte, separati gli uni dagli altri a mo’ di convegno. Da questo punto di vista, un dialogo filosofico come quello che l’anno scorso avevano intavolato Florinda Cambria e Snejanka Mihaylova ci sembra uno strumento più efficace, un’occasione più fertile affinché il pensiero venga effettivamente creato e, quindi, non solo esposto. Tuttavia, la confluenza di tanti studiosi e artisti nello stesso luogo, negli stessi giorni, ha generato comunque e quasi magicamente quelle “condizioni di incontro, di imbattersi fortuito” che Masque si impegna ogni anno a provocare.

Gli interventi artistici a Crisalide hanno essi stessi il sapore dell’esercizio, alcuni molto più di altri. In Nikola Tesla. Lectures, Lorenzo Bazzocchi mette in scena un vero e proprio esperimento. Mentre racconta delle disavventure e dell’infausto destino di Nikola Tesla che, pur essendo l’inventore del primo motore a corrente alternata (la corrente di cui ci serviamo ormai quotidianamente) e dei primi apparecchi di trasmissione radio, è rimasto nel dimenticatoio per decenni, Bazzocchi mostra il funzionamento del primo esperimento di trasmissione di corrente elettrica senza fili, la Tesla Coil. A fine ‘800 Tesla aveva costruito una bobina simile, ma di proporzioni ben maggiori, nel suo laboratorio a Colorado Springs, una bobina capace di generare fulmini che raggiungessero gli 80 metri. Se quella di Bazzocchi è, per sua stessa definizione, una conferenza esperimento, la suspense e la tensione generate dal dubbio sul risultato dell’esperimento e dal timore che un fulmine possa deviare pericolosamente la sua traiettoria, fanno di questo incontro un atto teatrale allo stato puro. In particolare all’inizio, quando il buio profondissimo è spezzato dai fulmini della Tesla Coil che scaricano la loro energia intorno allo stesso Bazzocchi, protetto da una possente gabbia di Faraday rotante. Sembra di essere tornati indietro di un secolo: per un attimo si ha l’impressione di ritrovarsi nelle viscere di uno scantinato clandestino di fine ‘800 e di assistere a qualcosa che “accade” di fronte agli occhi dello spettatore. D’altronde in quello che accade non vi è nulla di misterioso e Bazzocchi si prodiga a spiegare, nella maniera più semplice possibile, i meccanismi che permettono alla corrente elettrica di essere trasmessa senza fili, dimostrando come la terra, al contrario di ciò che comunemente si pensa, è un ottimo conduttore di energia ed è grazie a questa sua proprietà che la Tesla Coil può mettersi in funzione. Nessun sortilegio, nessuna magia intorno al personaggio di Nikola Tesla che per tanto tempo invece, è rimasto avvolto da un alone di mistero, di leggenda. Se per un secolo il suo apporto alla scienza è stato ignorato è perché il potere (economico) aveva avuto tutto l’interesse a nascondere le sue verità. In un certo senso, volendo vedere in Tesla un inventore minoritario (soprattutto se pensiamo a personaggi che ebbero molta più risonanza come Edison o Marconi), questo riportare alla luce i suoi apparecchi e le sue tesi da parte di Masque Teatro cos’è se non una possibile via di fuga da quel procedimento di rimozione dell’esperienza tesliana messo in atto dal potere in un secolo di storia? I fulmini (di fronte ai quali lo spettatore rimane scioccato) non sono che la metafora (o la sineddoche) di quella realtà di cui la ragion critica deve tornare a occuparsi.

Il regno profondo del titolo del sermone drammatico portato in scena da Claudia Castellucci è anch’esso nient’altro che la realtà nuda e cruda. L’attrice rivolge la propria preghiera a Dio, dando prova della contingenza dello stesso concetto di preghiera: “Desidero pregare senza credere a qualcuno che mi ascolti”. Quasi non importasse quel sovra-mondo al qualche le preghiere si rivolgono, ma solo il gesto stesso della preghiera che è canto morbidissimo per la voce perfettamente intonata di Claudia Castellucci. In scena c’è solo lei, con un fazzoletto in testa, gli occhiali con la montatura scura e una maglietta nera con stampata la faccia di Alex di Arancia Meccanica e con la scritta Ultra Violence. Non si potrebbe immaginare la Castellucci in una mise più contraddittoria. Il suo sermone è a tratti ironico e tragico, allo stesso tempo, visto che in esso racconta la vita quotidiana, la realtà più triviale e umana, supplicando Dio soprattutto di non farla rinascere in nessun’altra vita, data la difficoltà di vivere già in questa che le è toccata in sorte, e piuttosto di essere lasciata, dopo la morte, al nulla. Nulla al quale abbandonarsi, finalmente, con sollievo. Ma questo Dio, “duro d’orecchi e ancor più duro di cuore”, è un Dio di nessuno, ancor prima che di Isacco e di Giacobbe. È un Dio uomo. E l’intero sermone è un canto dell’immanenza.

L’incubo tracciato da Fanny & Alexander in Discorso grigio, interpretato da quel mostro di bravura che è Marco Cavalcoli, è anch’esso calato pienamente nel reale. Il discorso del titolo è quello che un politico, IL politico italiano, rivolge a fantomatici “cittadini”, continuamente presi in causa dal suo vaniloquio che diventa sempre più parossistico. In questo discorso ritroviamo tutte le formule, le frasi fatte e le inflessioni dei nostri politici attuali, svuotate completamente di senso nel loro essere reiterate in maniera sempre più convulsa. In un certo senso, è quello che succederebbe se alle ore 20 cominciassimo a fare zapping tra i diversi telegiornali nazionali. Vedremmo personaggi come burattini sempre più spaesati, affannati, sudati; aumentando la velocità del nostro zapping tali politici potrebbero perfino, insieme a noi, perdere i sensi. L’incubo in Discorso grigio, nella sua aderenza quasi maniacale alla realtà, è che tale discorso non finisce mai, ricomincia sempre da capo.

In confronto al vuoto del personaggio creato da Fanny & Alexander, persino le macchine di Pentesilea di Masque Teatro hanno una parvenza più umana. Questa Pentesilea è liberamente ispirata all’opera omonima di Heinrich von Kleist e riletta attraverso l’Anti-Edipo di Gilles Deleuze e Félix Guattari, filosofi sempre cari alla ricerca della compagnia forlivese. La Pentesilea innamorata di Achille che presa dalla furia, lo uccide e lo sbrana, prima di uccidere anche se stessa. In scena Achille è una macchina e Pentesilea, interpretata da Eleonora Sedioli, è succube dalla sua stessa furia. “Una macchina-organo è innestata su una macchina-sorgente: l’una emette un flusso che l’altra interrompe”, così come ne l’Anti-Edipo dei due filosofi francesi. La potenza della furia di Pentesilea è tutta nei suoi sandali di ferro con i quali attraversa lo spazio che la separa dal corpo-macchina trasformandosi in animale, contorcendo il proprio corpo e restituendogli quella materialità piena, viva, forte, che solo un corpo cosciente può possedere. Lo stesso Kleist aveva definito Pentesilea “metà furia, metà grazia” e tale ci appare nell’interpretazione di Eleonora Sedioli. Persino nelle immagini immobili delle foto scattate da Enrico Fedrigoli ed esposte, durante i giorni di Crisalide, all’Oratorio di San Sebastiano. ES, il titolo della mostra, ci riporta sia al nome di Eleonora, protagonista delle foto, sia a quello della “voce della natura nell’animo dell’uomo”, l’es della psicoanalisi. Nei bellissimi scatti di Enrico Fedrigoli, eseguiti con il banco ottico, si percepisce tutta la materialità del corpo, di ogni suo minimo movimento che diventa quasi tridimensionale, arriva dal buio e sembra prendere forma proprio grazie alla luce. “Con il banco ottico è come se l’oggetto fotografato nascesse tra le mie stesse mani, sono io stesso a crearlo”, afferma Fedrigoli. La mostra è un capolavoro. Pura materia. Che non equivale a dire “solo” materia. Perché dentro il concetto di materia convive un’infinità di sfumature. Così come tra il bianco e il nero troviamo un’infinità di sfumature di grigio.

Lo stretto rapporto tra buio, luce e corpo che, grazie al suo movimento, dà forma a entrambe, lo ritroviamo in Obtus di Cindy Van Acker, interpretato dalla bravissima Tamara Bacci accompagnata dalle musiche di Mika Vainio e dalle luci magistrali di Luc Gendroz e Victor Roy. Obtus è, tra le cose che abbiamo visto a Crisalide quest’anno, quella che più si avvicina, secondo noi, al discorso portato avanti dai filosofi protagonisti del festival. Tamara appare, in questa coreografia, esattamente come una di quelle pieghe del mondo, di cosa tra le cose, a cui accennava Rocco Ronchi. Il suo corpo ora appare, ora scompare, prendendo vita così dal buio come dalla luce di un unico lungo neon in scena. La sua danza è simile al nostro movimento sulla terra, nella sua semplicità e contemporanea complessità. Corpo visibile e ben definito che ogni tanto scompare, risucchiato dal buio, a poco a poco. La perfezione formale, in Obtus, piuttosto che rendere freddo o sterile il lavoro della Van Acker, ci emoziona per la sua naturalità. Il corpo della Bacci ci sembra la perfetta metafora di quel corpo che resiste, mobile, attivo, critico, ma mai esuberante, all’inverno.

Protagonisti di Crisalide sono stati anche Isabella Bordoni che, attraverso la danza di Fabrizio Varriale, il suono curato da Nicola Ratti e la sua stessa poesia, con Adesso&Muto ragiona sul silenzio, dandogli forma; i Cod.Act, ovvero i fratelli André e Michel Décosterd, con la loro installazione Ex Pharao, che permette a qualsiasi spettatore che voglia interagire con questo complesso macchinario, di ricreare col proprio movimento alcuni passi dell’opera Mosè e Aronne di Arnold Shoenberg. E poi i musicisti Giacomo Piermatti con il suo splendido concerto Lux ex Tenebris e Elio Martusciello che con Akousma ci ha fatto immergere in una quadro in continua evoluzione, dipinto con i pennelli della sua chitarra elettrica modificati elettronicamente, una lunga sinestesia. Ricco di simboli ma poche sinestesie, invece, il concerto di Dewey Dell, Tuono, che ha chiuso l’intero festival.

Alla fine delle quattro giornate di Crisalide, proviamo a fare le somme. How shall I act? Non abbiamo una risposta certa a questa domanda, nessun filosofo ce l’ha fornita, nessun artista ce l’ha suggerita. Eppure nella condivisione del proprio modo di affrontarla, questa domanda, nell’incontro di cui Crisalide si fa promotore, intravediamo una qualche forma di riposta. Se è vero, come Ronchi diceva rifacendosi a un’immagine di Deleuze, che oggi l’uomo è l’incarnazione dell’esausto, di “colui che non ce la fa più non sul piano del reale, ma su quello del possibile”, ovvero l’uomo privato di un orizzonte; se è vero che viviamo una condizione di postumi, ovvero di esseri umani generati da un padre morto, come trovare questo fuori, come uscire dalla nostra soffocante finitezza se non grazie, anche, all’incontro? Riprendendo un’espressione di Ronchi, Crisalide è un po’ come una botta di aria fresca per il pensiero, il fuori in cui vorremmo ritrovarci ogni volta che abbiamo bisogno di un confronto, di una ricerca condivisa, coscienti del fatto che noi, come tutti coloro che hanno intrapreso o no un cammino di ricerca, non siamo altro che una cosa tra le cose, l’uomo alla pari di un animale, di una pietra, di un albero.

 


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Marta Ragusa

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Cindy Van Acker_Obtus ©Isabelle Meister
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Claudia Castellucci_Il regno profondo
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Cod.Act_Ex Pharao
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Dewey Dell_Tuono ©Dewey Dell
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Fanny & Alexander_Discorso grigio ©Enrico Fedrigoli
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Giacomo Piermatti
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Bordoni, Varriale, Ratti_Adesso&Muto
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Rocco Ronchi
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