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Theatre - Theatre Festivals - Article | by Marta Ragusa in Theatre - Theatre Festivals on 03/12/2011 - Comments (0)
 
 
 
XVIII Crisalide Festival. Diario dell'inverno

Winter Years è giunto alla fine del suo secondo anno, esaurendo il tema della normalizzazione e preparandosi a quello del potere per l'edizione di Crisalide del 2012. Le arti e i saperi, continuamente a rischio nella società contemporanea, trovano nel terreno fertile dell'ex Filanda di Forlì, la casa di Masque Teatro, uno spazio in cui ancora dar prova di libertà e originalità, attraverso l'esercizio e la riflessione sulla propria ragion d'essere.

 
 

4 settembre _ Ogni giorno da quando è iniziata questa edizione di Crisalide un gruppo di studenti del DAMS di Bologna e di Roma Tre, del Centro Studi Teatrali della Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori di Forlì e del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Milano si incontrano in una vera e propria redazione per discutere insieme e condividere impressioni e riflessioni sulle esperienze artistiche e teoriche vissute durante il Festival. Ho chiesto a Piersandra Di Matteo, curatrice del progetto SD. Scienze diagonali, di poter partecipare a una delle loro riunioni mattutine in corso Armando Diaz 64 e lei si è dimostrata subito disponibile ed entusiasta. La redazione a cui questi ragazzi hanno dato vita è una tra le più fervide e stimolanti in cui sia mai entrata. Ospiti e studiosi di levatura internazionale vi fanno visita a lasciare la propria testimonianza, a pungolare i giovani redattori suggerendo loro possibili percorsi di ricerca. E così, dopo una lunga conversazione insieme a Enrico Pitozzi, professore a contratto del DAMS di Bologna, e Katia Rossi, studiosa di estetica contemporanea, i ragazzi si mettono al lavoro, ognuno con il compito che si è scelto: un’intervista, una recensione o una descrizione “impressionista” degli avvenimenti della serata precedente da pubblicare sul sito di Scienze Diagonali. Alcuni di loro si domandano se il loro lavoro abbia un senso, se poi qualcuno leggerà i loro articoli e ne trarrà qualche tipo di beneficio. A prescindere dagli eventuali lettori, però, Scienze Diagonali è, per chi lo fa, un ottimo esperimento di studio collettivo, uno spazio in cui i discorsi iniziati durante il festival trovano continuità e approfondimento. Quindi si inscrive perfettamente nell’ambito dell’esplorazione teorica che caratterizza l’intera manifestazione e che non termina di certo con l’ultima delle performance alle quali assisteremo oggi all’interno di questa XVIII edizione di Crisalide.
Il primo appuntamento della giornata ci porta tutti in macchina verso Forlimpopoli, lì dove 18 anni fa nacque Crisalide. Il Ramo Rosso è anche lo spazio in cui è nato Masque Teatro e questa, purtroppo, è l’ultima occasione in cui le sue grandi stanze dai muri spessi e il tetto in legno si riempiranno di ospiti, artisti e pubblico. A causa dei tagli finanziari che il festival ha subito, Masque non può più permettersi di sostenere l’affitto di questo casolare lungo la via Emilia e, come Masque, nessun’altra compagnia teatrale. Così che alle 17, quando inizia il dialogo filosofico tra Snejanka Mihaylova e Florinda Cambria, mentre fuori piove e le pareti bianche si incupiscono, si respira già l’imminente addio, anche per chi come me si ritrova qui per la prima volta nella vita.
Snejanka Mihaylova, performer e filosofa bulgara, e Florinda Cambria, dottore di ricerca in filosofia, affrontano il tema del rapporto tra pensiero e teatro e, pur partendo entrambe dall’assunto che le figure del filosofo e dell’attore coincidono nel momento in cui sono paragonabili all’uomo che improvvisamente si stacca dalla sua comunità culturale perché non si riconosce più in molte delle azioni che in essa vengono perpetrate e se ne chiede continuamente il significato (così la figura del filosofo come ci viene tramandata da Socrate), arrivano a delle conclusioni che sono inconciliabili ma che, tuttavia, possono coesistere. Per la Cambria non esiste il pensiero senza mediazione: il pensiero, così come il teatro, è esso stesso mediazione, e quindi l’azione pura non esiste, è solo una parola. Per la Mihaylova, invece, dovrebbe essere possibile un pensiero (così come un teatro) che sia azione immediata, ovvero non mediata, che possegga quindi una sorta di potere magico. Il teatro, così come lo si intende normalmente, è per la Mihaylova una nozione normalizzata dell’alienazione di cui parla Florinda Cambria raccontando la storia di Socrate. Normalizzata quindi perfettamente sottomessa alla logica del capitalismo. Se, come afferma la filosofa italiana, il teatro è la pratica formalizzata in cui un gruppo umano si espone alla rituale rimemorazione del proprio essere mortale, allora questo significa che è ripetibile e quindi vendibile. Mentre la filosofa bulgara auspica un teatro che appartenga all’esperienza stessa e che per questo sia irriproducibile, come la vita. Il teatro avviene, esattamente come avviene il pensiero, esattamente come avviene la vita: questo concetto è alla base dell’ultimo libro della Mihaylova, Theatre of thought (Critique & Humanism), nel quale sperimenta nuovi modi di frequentare il linguaggio al di là della dialettica. Quello che appare come uno scontro, in realtà è solo un confronto. E l’aria si fa veramente tesa solo quando Lorenzo Bazzocchi fa notare alla Cambria che portando qui al Ramo Rosso gli esempi di Brecht e Kantor mette gli uditori nella stessa posizione di quell’uomo dell’esempio che lei stessa ha citato, quell’uomo che non riconosce i gesti abituali della propria comunità sentendosene estraneo; perché qui al Ramo Rosso quel teatro in fondo non esiste, né mai è esistito.
In confronto alla tensione e al livello di questo dialogo filosofico che non è più a due ma coinvolge tutta la stanza, le Quattro danze coloniali viste da vicino della compagnia MK sembrano un balsamo per i sensi. Estrapolate da un progetto più vasto, Il giro del mondo in 80 giorni, le quattro danze ruotano intorno al concetto di incontro e distanza tra i corpi (durante le prove non sempre ben calcolata visto che Laura Scarpini ci stava quasi perdendo un occhio) e vedono Philippe Barbut nei panni di un colonialista e Biagio Caravano e Laura Scarpini come forze libere in origine, sottomesse poi al potere del primo. I suoni di pioggia, animali e fogliame esotici e il caldo torrido seguito alla pioggia reale di Forlimpopoli, hanno permesso a tutti di immedesimarsi senza problemi nella foresta tropicale evocata dai tre danzatori.
La sera si ritorna in città, all’ex Filanda. La luce umida del Ramo Rosso scompare e ritorniamo dentro le scatole nere di questi giorni. LOVEEEE è una conferenza tenuta da Lucia Amara, studiosa di teatro e di linguistica, accompagnata da alcuni esercizi dell’eccezionale Cristina Rizzo, danzatrice, performer e coreografa dotata di straordinaria naturalezza. Basandosi sui due corposi volumi su L’estetica della grazia (1933) di Raymond Bayer, Lucia Amara ci ha riportati a un concetto di grazia molto umano, lontano dall’identificazione con la bellezza e il sublime che ne è stata fatta nei secoli, ponendo l’accento su tutti quei “luoghi occasionali in cui la grazia costruisce la dimora”. Il talento precipuo della grazia sarebbe così quello di unire, fondere ciò che dissomiglia creando una circolarità cosmica non dimentica però degli errori originali. In linea con l’altra caratteristica fondamentale della grazia che è l’esercizio (ma non lo studio), Cristina Rizzo ha portato e porta avanti dei veri e propri esercizi di grazia che ruotano intorno ai concetti di risparmio, gratuità e abbandono, le nozioni che più l’hanno colpita nella lettura di Bayer. Spesso la grazia è legata al movimento e la Rizzo sperimenta i muscoli della lingua, il fluttuare dei lunghi capelli biondi e il movimento delle mani alternando questi esercizi al discorso di un’emozionatissima Lucia Amara e sottolineando il rapporto tragico tra grazia e potere che scaturisce da una relazione forte e nello stesso tempo languida della prima con la norma.
La serata e l’interno festival si chiudono con Fidippide di Barokthegreat. Quattro enormi faretti posizionati sulla scena non permettono di decifrare bene i movimenti della danzatrice e coreografa Sonia Brunelli ma le percussioni incalzanti e inquietanti di Leila Grahib che la fa da padrona, conferiscono alla breve performance un mistero in perfetto accordo con l’oscurità della scena.
Ma di questa serata ciò che rimarrà più impresso nella mia memoria è senza dubbio l’apparizione gioiosa e bizzarra di Gerald Kurdian, ospite a sorpresa di Crisalide, invitato direttamente da Lucia Amara e Cristina Rizzo che lo hanno conosciuto per caso a Berlino. Gerald, gigante francese con minuscoli occhialini da vista, ci canta e suona due canzoni e mezza struggenti e ironiche che si portano via tutte le preoccupazioni, ci conducono lontano da ogni logica normativa. Un carnevale fatto da un solo uomo.
Sarà anche un ospite a sorpresa ma sembra calzare a pennello con il concetto di “desperate optimism” di cui parlava Félix Guattari, quella “sensazione generale ancora possibile nonostante i disastri delle politiche insensate e oscuri annichilimenti”. Un sentimento totalmente fuori luogo che permette anche al teatro, nonostante tutto, nonostante la razzia degli spazi e delle risorse, di essere. Ancora.

 

3 settembre _ La casa di Masque Teatro è fatta di stanze nere; i movimenti dei suoi abitanti e ospiti sorgono dall’oscurità come delle improvvise apparizioni. E altrettanto improvvisamente scompaiono inghiottiti dal buio. È difficile che questa casa mi diventi familiare, è un luogo estraneo (allo stesso modo forse in cui ci è estraneo il mondo del nostro inconscio) ma ha il pregio di essere talmente nera da poterci immaginare dentro qualsiasi cosa. Le stanze sono delle scatole, una scatola grande e una scatola piccola, dall’aria spessa e calda, dove la forma di vita primordiale è il teatro e dove oggi, per la prima volta, il nero pesto è spezzato dalla luce del pavimento bianco lucido su cui serpeggia il corpo infinito di Cindy Van Acker, attesissima ospite di Crisalide.
L’ex Filanda è in fermento: ci sono mille cose da fare tra la preparazione del Ramo Rosso, dove si svolgerà metà della giornata di domani, e quella della scena per la performance della Van Acker.
Cindy ha corporatura minuta e sguardo sorridente, amichevole: a guardarla aggirarsi per l’ex Filanda la sera prima, jeans e occhiali da vista, non avresti mai detto che da quel corpo si sarebbe sprigionata tanta energia. In Lanx, uno dei 6 Soli di cui fa parte anche Obvie, il solo che abbiamo visto in video la prima serata qui a Crisalide, un corpo vestito di verde si muove in uno spazio vuoto studiandone la struttura geometrica, le linee diagonali che lo attraversano. Il corpo stesso ha una linea bianca tracciata lungo la schiena e le sue membra cercano delle forme all’interno di quel vuoto. Con movimenti precisi, netti, accuratissimi, Cindy Van Acker costruisce cerchi e linee rette, parallele o convergenti. Ogni suo gesto è scandito dai suoni elettronici di Mika Vainio, un omone alto e muscoloso, finlandese, che con la sua formazione, i Pan Sonic, ha girato il mondo, tra il MOMA di New York e il Centro Pompidou di Parigi. Sembra che gli stessi suoni generino i movimenti, come quando all’inizio della performance il rumore di un elicottero fa vibrare e virare le braccia della Van Acker per poi lasciarla rotolarsi, ma senza toccare (quasi) mai le pareti. È fortissima la relazione con la superficie del pavimento. Il corpo di Cindy non si solleverà mai completamente, come appiccicato al suolo, soggiogato dalla forza di gravità. E quando toccherà le pareti nere della stanza non potrà che suscitare nello spettatore un moto di sorpresa, quasi di fastidio. Perché lei appartiene al bianco e alla precisione delle diagonali e a nessun tipo di superficie verticale. Ma c’è una sorpresa: all’improvviso le luci si spengono e le linee diagonali bianche prendono nuova vita illuminandosi di luce fosforescente. Il corpo della Van Acker scivola nel buio, a poco a poco scompare, e lo spazio perde la sua bidimensionalità per divenire universo. Via il candore del pavimento, via le pareti. Un corpo buio nel buio dello spazio trafitto da linee arancioni. Lanx non è danza, non è suono, non è arte visiva ma tutto questo insieme più qualcos’altro ancora. Forse è la riscoperta di tutte queste cose.
Difficile mantenere la stessa tensione dopo Lanx. Ciò che seguirà sarà irrimediabilmente bidimensionale.
Come i due interventi filosofici di Manola Antonioli (“Paradigma culturale e paradigma estetico”) e di Ubaldo Fadini (“Neuro – habitat : osservazioni sulla società della comunicazione”). La prima, insegnante di filosofia dell’arte e dell’estetica presso l’École supérieure d’art et de design de Valenciennes e filosofia all’École nationale Nationale Supérieure d’Architecture de Versailles, affronta una breve analisi del pensiero di Félix Guattari, la cui raccolta di articoli Les années d’hiver ha forse ispirato l’intero progetto triennale di Crisalide. Il secondo, insegnante di Estetica all’Università di Firenze, partendo dalla distinzione tra solitudine e isolamento che lo psichiatra Eugenio Borgna spiega ne La solitudine dell’anima, decide di condividere con noi la sua tesi seconda la quale l’unico ambito di “estrema, disperata resistenza alle logiche del nostro quadro di società” sarebbe l’isolamento. E prende come esempio il fumetto di Miguel Ángel Martín, Neuro – habitat, il cui protagonista decide di tagliarsi fuori dal mondo isolandosi dentro la propria casa con il giusto “apporto di sostegni tecnologici” a fargli compagnia. Da una parte, Cindy Van Acker decide di costruire il suo lavoro coreografico su sei soli, sei personaggi che agiscono in uno spazio vuoto, in completa solitudine, dall’altra Fadini fa una sorta di apologia dell’isolamento che, pur riconoscendo come patologico, esalta come unica soluzione dell’esaurimento delle possibilità. All’uomo oggi, non resterebbe che isolarsi e non preferire alcunché. Non basta più la formula dello scrivano di Melville che dice “preferirei di no”; oggi semplicemente non bisognerebbe scegliere. Sarebbe un bel parallelismo (quello tra la ballerina svizzera e il protagonista “eroe” di Fadini) se non fosse che la prima ha una carica fortemente positiva, scegliendo la solitudine (e non l’isolamento) come forma di espressione e azione per poi riversare la propria bellezza su chi la guarda, su chi decide di condividerla con lei, in questo caso il pubblico di Crisalide. Mentre il secondo dimostra di assumere o di appoggiare una posizione che definirei catatonica che, a parer mio, più che opporsi al sistema, lo asseconda spudoratamente.
L’azione, oggi a Forlì, supera di gran lunga la parola. E mi pare che il gesto puro, pulito, elegante di Cindy Van Acker riassuma ogni possibile discorso sull’arte, sulla solitudine, sullo spazio e sulla sopravvivenza in questo quadro di società.

 

2 settembre 2011 _ “Why Italy?” chiedo a Nicolas Field, all’ombra di due grandi alberi sul terrazzo improvvisato dell’ex Filanda, mentre sorseggiamo un caffè dopo un lauto pranzo preparato dalle ragazze di Masque. Nicolas sorride e poi ancora sorride ma non mi risponde, mi dice: “Non lo so”. La domanda, a quanto pare, è imbarazzante. Italia è imbarazzante. Un grande contenitore, tra i più contraddittori. È per questo che, nonostante Crisalide esista da quasi 20 anni, a Forlì sembra quasi non esserci. La città è silenziosa e semi-deserta, eppure poi la sera, quando alle 21h hanno inizio le danze, via Orto del fuoco come per magia si riempie e in sala non rimane nemmeno un posto libero. La signora Milena Bonucci Amadori, conosciuta ieri all’Oratorio San Sebastiano, mi ha spiegato che il pubblico di Crisalide arriva quasi tutto da fuori. Ho così lanciato una sfida a me stessa: invitare la receptionist bionda dell’Hotel Executive, in cui il festival generosamente mi ospita, a venire a una serata crisalidosa.
Quella di oggi si articola in una parte performativa, con Plumes dans la tête e il loro Insorta distesa, e una parte discorsiva con l’intervento del professor Raimondo Guarino (“Difendere il teatro dalla società”), ordinario di Teatro e culture della performance presso l’Università di Roma Tre. Bisogna dunque prepararsi: per la prima, a proteggersi dalla ricerca disarmante di Silvia Costa, dalla sua fisicità così delicata che nemmeno i suoni sfiancanti di Lorenzo Tomio riescono a trasformare in aggressiva. Per la seconda, a impugnare il taccuino e la penna per non perdersi nemmeno una parola del saggio Guarino che riesce, nonostante il caldo torrido, a catturare l’attenzione del pubblico sul tema della potenza e dell’impotenza dell’atto nel teatro, dedicando malinconicamente il suo intero intervento ai giovani e meno giovani registi di oggi e riuscendo, per la prima volta da quando il festival è iniziato, a far sorridere qualcuno in platea, nonostante la serietà e la tragicità del suo discorso.
Raccontare Insorta distesa non è facile. Ogni oggetto, ogni colore, ogni suono, ogni gesto è un simbolo, eppure ognuno di essi manca totalmente di astrattezza. Sono lì, pesanti e reali, che cercano di emergere dall’oscurità del pavimento e della parete nel quale avvengono. Come per Stato di grazia, a cui abbiamo assistito ieri, il gioco delle luci è fondamentale nell’opera di Plumes dans la tête. Le luci a poco a poco mettono in risalto una parte o l’altra della scena, facendoci accorgere di ciò che prima era davanti ai nostri occhi senza che ce ne rendessimo conto. I protagonisti sono due, entrambi impersonati da Silvia Costa. Un corpo avvolto da duro gesso e uno avvolto da capo a piedi da una tuta isolante, bianca come il gesso. Il secondo appare quando il primo scompare e ne è lo “scopritore”. Colei che, ben protetta, ben isolata, passeggia tra i resti umani ingessati a cercare le tracce di qualcosa che c’era, è (come afferma la stessa Costa) un’archeologa: “come un archeologo scopro nella terra oggetti che devono essere riportati alla luce dopo aver custodito dentro i loro gusci vuote forme di corpi, memoria di gesti”. Il corpo che prima vi risiedeva è stato svuotato dalle arterie e dalle vene presto diventate zavorre ai piedi, ed è scomparso in un’apoteosi di suoni stridenti. Dal vuoto seguito alla morte, è comparsa, piccola e feroce, una trivella. Un martello che batte e batte sulla terra, ne scava il cuore. “La messa in scena”, scriveva Antonin Artaud, come ci ricorderà poco dopo Raimondo Guarino, “non è un quadro, non è una strada da indicare a qualcuno, ma una serie di colpi di martello nel cuore del regista che gli altri attori sentono per amore o per scelta colpendosi con altri martelli o coltelli reali”. E allora, forse, Insorta distesa non è simbolico, né metaforico (come Grotowski definiva il lavoro di Artaud) ma iperbolico. Un’iperbole della ricerca dell’oro. Ma “l’oro è alla fase di elemento da ricercare”, dice Silvia, “non ce n’è esperienza, non lo si può ancora né vedere né toccare”. Il corpo insorto dalla sua immobilità, dal suo sonno, dalla sua trappola di gesso è imperfetto e quindi muore. Ma l’archeologo, nella sua devota ricerca, si adagerà sulla polvere che ne è rimasta, volendo offrire chissà una seconda opportunità al suo insorgere.
Questa seconda serata è triste, qui a Forlì. Il teatro di Antonin Artaud, definito da Guarino come monumento inevitabile, e i suoi ultimi anni di reclusione in manicomio aleggiano per l’ex Filanda e ci ricordano i rischi che si corrono in questo lungo inverno. La neutralizzazione, la normalizzazione: “accettare l’alterazione con il pretesto della follia non è altro che la sottomissione della libertà dell’arte alle definizioni della psichiatria”. È per istinto di conservazione che lo psichiatra di Artaud, il dottor Ferdière, dopo qualche esitazione decide di praticargli l’elettroshock: lui stesso si giustifica dicendo che lo ha fatto per legittima difesa della società. Ed è qui che Guarino fa un parallelo tra Ferdière e il dottor Caligari del celebre film di Robert Weiene. Il regista francese e Cesare vittime di coloro che difendono la società. E allora, come invece difendere il teatro dalla società? Forse, chissà, con l’arrivo dell’inverno sarà persino più facile perché, come ci ricorda lo stesso Guarino citando Roger Caillois, “è in inverno che le società umane stringono rapporti di solidarietà, esprimono le loro energie migliori. I forti resistono all’inverno e sono loro che possono cambiare il mondo”.
Della receptionist bionda nessuna traccia.

 

1 settembre 2011 _Winter Years ha una carica politica prorompente e, non a caso, sceglie quest’anno come domanda/tema Why Italy?, perché l’Italia è un po’ il paradigma della crisi sociale, politica ed esistenziale che investe l’intero pianeta. E accade, infatti, in Italia che a un festival vivo, creativo, esente da qualsivoglia processo di mummificazione come Crisalide la provincia di Forlì – Cesena sottragga ben il 75% dei finanziamenti. “Niente di strano, né di improvviso, né di inaspettato”, racconta Lorenzo Bazzocchi di Masque Teatro, “è solo uno dei risultati di un processo molto più lungo che vuole trasformare la cultura in industria della cultura”. E Crisalide non è un’industria, non può esserlo né diventarlo. Crisalide è un momento di studio e di condivisione nel quale artisti e filosofi si confrontano dando vita non a prodotti finiti, a un insieme di rappresentazioni definite, bensì ad altri studi ancora, a ulteriori riflessioni da continuare, chissà, l’anno successivo, a una crescita lenta che è individuale e collettiva allo stesso tempo. È questa l’impressione che si percepisce non appena arrivati all’ex Filanda, in via Orto del fuoco, un nome che è tutto un programma. Ci si mette in discussione, ci si ascolta, si discute su ciò che si sta facendo, su ciò a cui si assisterà anche solo dopo pochi minuti.
Prima dell’inizio del festival con l’inaugurazione di Shimmering beast, un’installazione sonora di Nicolas Field, ricevo il mio primo regalo della giornata: un libro. Si tratta di Theatre of thought di Snejanka Mihaylova, performer filosofa bulgara tremendamente affascinante che mi introduce poco a poco nel mondo variopinto di Crisalide. Il suo libro ha la copertina bianca e dentro è pieno di geroglifici e concetti filosofici in inglese, non sono certa che finirò di leggerlo prima di domenica, ultima data del festival, quando anche Snejanka darà il suo contributo a Crisalide con un dialogo filosofico insieme a Florinda Cambria.
All’Oratorio San Sebastiano, invece, ci aspetta l’enorme animale luccicante ideato da Nicolas Field, una parete triangolare composta da 55 cimbali (i piatti della batteria tanto cara all’artista che, prima di tutto, è un musicista) posti uno accanto all’altro in modo da sfiorarsi leggermente alla vibrazione del podio sui quali sono installati i cavalletti che li sorreggono. Con un sistema di trasduttori che amplificano le frequenze (anche bassissime) generate da un computer, l’imponente parete comincia a vibrare e a far tremare l’intero Oratorio. L’aria dentro la struttura si fa tesa, sembra che da un momento all’altro debba succedere qualcosa di inevitabile, è come un terremoto che ci mette in guardia da un pericolo il cui nome non conosciamo. Nicolas Field è inglese, ha vissuto molti anni in Svizzera, suona le percussioni da quando aveva 7 anni e parla della sua ultima installazione con gli occhi luccicanti di chi si innamora della propria opera. Il suono prodotto dai 55 piatti tintinnanti e luminosi (l’installazione non è solo sonora ma anche visiva e l’immagine è veramente forte) si spande dalla superficie ondulata del triangolo in tutta la stanza e sembra durare all’infinito. Un telo nero divide il suono tra interno ed esterno e oltrepassandolo mi catapulto fuori, e sono di nuovo nella città di Forlì dove la terra non trema.
All’ex Filanda, intanto, ci si comincia a preparare per la prima serata del festival e alle 21h il pubblico è ancora pericolosamente in aumento. Tanto che, se per la prima performance non ci sono problemi dato che avverrà nella sala grande, per la seconda si organizza una replica in serata. Le protagoniste sono Alessandra Cristiani di Habillé d’eau, Silvia Costa di Plumes dans la tête e Tamara Bacci di Cie Greffe.
L’igiene – Ipotesi percettiva, diretta da Silvia Rampelli, è un corpo che sbuca dalla nebbia fitta e pesante. Ci sediamo lungo le pareti della stanza rettangolare e lo vediamo avvicinarsi a poco a poco agli sguardi di tutti. Alessandra Cristiani ha lunghi capelli rossi che le coprono un po’ le spalle nude. Tutto il suo corpo è scoperto, alla mercé del pubblico al quale ne offre la scomposizione. Dopo aver protetto in maniera ossessiva le sue parti intime, la protagonista si siede sopra un pezzetto di carta, forse caduto a qualche spettatore. Quel pezzo di carta è l’oggetto del suo contorcimento. Ogni membro del suo corpo sembra staccarsi dal tronco e vivere di vita propria, da solo nettarsi di tutta la sporcizia accumulata. Il movimento della protagonista è angosciante, fino alla fine, quando, dopo essersi immersa nel buio, oltre le quinte, eccola riapparire tra la nebbia con il viso imbiancato, quasi una maschera che si confonde con l’aria lattiginosa della stanza. Il suo movimento è un rebus e all’uscita sento dire a una spettatrice: “Secondo me non bisogna trovare una spiegazione, ma affidarsi alla sensazione che a ognuno trasmette”. E ognuno sembra avere la propria idea su L’igiene, anche perché molto è dipeso dalla posizione da cui si è assistito alla performance.
Equilibri e relazioni tra corpo e spazio, che è spazio deserto silenzioso e nello stesso tempo è spazio affollato, pieno di “altri”, quindi spazio da condividere. In D’après le solo Obvie_1/6 (coreografia di Cindy Van Acker, interpretazione di Tamara Bacci) il corpo, ancora una volta isolato, è immerso anch’esso nel candore, questa volta il candore della neve: un bianco assoluto, molto più disteso, rappacificante rispetto alla nebbia in cui si rotolava la protagonista de L’Igiene. L’enorme spazio del solo della Van Acker è anch’esso deserto e gli unici elementi a spezzare il luccichio del bianco sono il corpo della Bacci, vestita con una tuta nera, e gli abeti sullo sfondo verso i quali, alla fine del video, la protagonista si dirige, abbandonando la scena bianca, tornando forse al tempo degli umani e delle cose. Tutto il video è luminoso fino al punto in cui il corpo quasi scompare, spogliandosi del nero della tuta e confondendosi con il candore della neve con cui diventa un’unica cosa. La musica di Luigi Nono (No hay caminos, hay que caminar …) non c’è, possiamo solo immaginarla.
Infine, arriva il momento della replica di Stato di grazia di Plumes dans la tête. Silvia Costa è immobile, semi sdraiata sul vuoto. Sembra sospesa nel buio mentre ci racconta le vicissitudini di un “infame”: un ragazzo di 24 anni, dedito all’onanismo e ossessionato dai corpi infantili. Una storia di un corrotto, di una vittima, di un ultimo. Il testo è tratto da Psychopathia sexualis di Richard von Krafft-Ebing (1886) ma la storia narrata è quella dei reietti di tutti i tempi, di tutte le età. Il protagonista, infatti, non è altro che un “caso” da studiare e da buttare per permettere alla società di guarire dalla ferita che egli le ha provocato. E alla fine dunque brucerà vivo in un rogo mentre la musica (il disegno sonoro è di Lorenzo Tomio) si farà sempre più assordante. Ma prima ancora che questo succeda, attraverso un sapiente gioco di luci, apparirà l’oro, giusto ai piedi del corpo-manichino. Il protagonista ha toccato il fondo e il fondo è fatto d’oro, ovvero di luce e chiarezza improvvisa: “gli era parso tutto possibile, umano, chiaro e inevitabile. Non c’erano ombre o contorni; non c’erano condanne o sentenze. Solo uno stagliarsi ed uno sprofondare nello splendore del suo unico tratto. Nella salvezza della sua propria luce”. Silvia Costa è una persona minuta, delicata, quasi evanescente. Ma sulla scena le sue azioni (pur essendo ella immobile) sono potenti e, senza dubbio anche grazie alla spinta del suono, sconvolgono lo spettatore, lo stordiscono, mettendo a repentaglio l’ordine in cui ciascuna persona e ciascun oggetto hanno un posto ben preciso nel mondo.
Il teatro ci dimostra però che questo posto non esiste, che è frutto solo di una finzione che permette al potere di avere pieno controllo sulla realtà. Il protagonista di Stato di grazia così brucerà nel rogo, com’è giusto che avvenga, perché il processo di normalizzazione/neutralizzazione non può che condurre a questo, all’eliminazione del diverso, la cui esistenza non è ammessa.
Ma noi, prima della sua scomparsa, ne avremo sicuramente percepito l’oro.
Ogni spettatore ne conserverà il segreto.

 


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Bibliography, links, notes:

@ Ex Filanda, Forlì

pen:

Marta Ragusa

links:

www.crisalidefestival.eu

 
 
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