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Theatre - Theatre Festivals - Article | by is_a_bell in Theatre - Theatre Festivals on 06/08/2009 - Comments (0)
 
 
 
Santarcangelo39

A (very) brief recap, some highlights and random musings

 
 

I believe a wave of deconstructionism is what moves this 39th edition of the Santarcangelo Festival, and this is how I chose to move across its events too: breathing not just their accomplishments but also their moods and intentions.
I never acknowledged those events as “shows” and I won’t call them such. Neither I have assumed this festival to be a theatrical happening with a slant on music. Quite simply, I believe the word “Theatre” in this case should be temporarily frozen.

About the “scraps” I saw:

Masque – La macchina di Kafka (Kafka’s Machine)
This small piece by Masque springs from Deleuze’s interpretation of Kafka and revolves around the idea and the possibility of a self-generating sound: machine writing on the body, body rewriting on the machine.
An interactive dramatic formula that surprises for its levity.

Arto Lindsay – 36 Years in 1 Night
A texture of guitars and electronics; sharp riffs of little melodies but many shapes. Beauty and quietness.
Out-of-place.

Yoshimasa Kato & Yuichi Ito – White Lives on a Speaker
Inside a cave, around the circumference of a subwoofer, some sort of starch coagulates in a random series of animated, manga-like, multi-shaped figurines. Everything happens by means of sound input and… a finger: one of the performers operates on sound, the other stirs and cuts through the semisolid white mass with his bare hands.
An experiment on the physics and chemistry of sound, fascinating and compelling for the figurative dynamics it entails.

Fanny & Alexander - +/-

A self proclaimed “query about the dramaturgical source of sound” that doesn’t seem to develop further than a presentational scenic machinery.

Felix Thorn – Felix Machines
Inside an apartment interior, a merry orchestra of musical sculptures. Keyboards and deconstructed pianos sprouting out springs, chandeliers, clockwork machineries in a sort of steampunk setup that puts order into apparent chaos and produces a very bright and happy musical episode.

Theo Teardo – On Hook
Once again inside a cave, a moment of true rapture.
A musician “shooting” sound at the walls in what can only be defined as a “seismic” concert

Finally, a noteworthy mention goes to the reproposition of some of the milestones in the evolution of “sound-art” and “musical theatre” throughout the years; Alvin Lucier’s I Am Sitting in a Room possibly being the most significant example among them.
On this premise, Santarcangelo39 can also be experienced as a beautiful and fascinating educational field trip.

 
Santarcangelo 39

“Ha sede al culmine del potere e della gloria, nel punto supremo, nella più alta dimora, sì che nulla sfugge alla luce: ma ahimé in luogo dell'astro mi scontro a una macchina ardente tenebrosa; e per me l'alto dio ha il cuore nero” Paul Valery

 
 

Da un decennio ho scelto di stare fuori dal nome e dal luogo del teatro perché quel nome e quel luogo, programmaticamente dati come esaurienti, erano per me chiusi e inospitali.
Nel dare altri luoghi a un nome, nel dare altri nomi al gesto e all'atto di creazione, ho spesso ritrovato nei nomi e nelle sostanze delle parti la ricchezza e l'apertura attribuita all'insieme.
Ho allora chiamato voce, corpo, suono, poesia, visione, tempo, ascolto, sguardo, natura, gesto, luogo, spazio, e ancora… quei mondi che prima credevo di potere includere nella parola e nella pratica del teatro.
Ho conosciuto – affascinante – il limite della nominazione. Il compito semiotico.
Ma non bastava, avevo bisogno di nuovi dubbi per possibili temporanei approdi delle forme che si compongono per fotosintesi tra pensiero, emozione, ascolto, visione.
Amando alcuni percorsi della filosofia – soprattutto – e della matematica, dei sistemi della comunicazione e delle reti.
La domanda è stata: come fare di tutto questo un accadimento dell'arte?
Non più: come fare di tutto questo un accadimento del teatro.
Allora ho ammesso una piccola personale verità: nell'arte non vado verso l'insieme ma verso le parti. Tutte. Non al suo centro ma nei suoi spazi di ispirazione e di adiacenza. Come chiamata da una necessità della decostruzione.

Credo che su un'onda di decostruzione si sia mossa anche questa trentanovesima edizione del Festival di Santarcangelo di Romagna (Rn) e nell'accogliere l'invito di succoacido a farmi viandante tra alcuni suoi accadimenti, ho attraversato questo festival lungo alcune coordinate periferiche, respirando negli eventi non esclusivamente gli esiti ma gli umori e le intenzioni.
Non li ho intesi come spettacoli e non li chiamerò tali. Ne' ho inteso questo festival come un fatto di teatro che si è dato come angolazione percettiva la musica. Credo, più semplicemente se non addirittura più semplicisticamente, che la parola "Teatro" debba essere momentaneamente sospesa. Della presentazione di Chiara Guidi al festival, mi piace e mi interessa soprattutto una parola: fallimento. Sul perché ritengo di non avere visto in questo festival spettacoli bensì schizzi, scratches, si potrà altrove aprire l'appassionata riflessione intorno a quella decostruzione data come premessa, e sul perché il teatro sia dato, ciclicamente, per morto.
Personalmente credo che la decostruzione dell'insieme nelle parti per creare altre forme di rivelazione, sia il corso, perfino struggente, appassionato e potente, di quel fallimento al quale alcuni anni fa ho sentito di non potere abdicare.

Ringrazio la direzione e l'ufficio stampa del festival che mi hanno facilitato questo piccolo viaggio.
Piccolo poiché la scarsità del tempo che avevo a disposizione non mi ha consentito un'ampia panoramica, piuttosto suggestioni nei bordi e nel cuore di alcuni fatti scenici.
Questo breve intervento non ha pertanto alcuna pretesa di oggettività, esso è lo sguardo di una militante dell'arte intorno all'arte.
Mi sono – infine – mossa con tenerezza. Un viaggio solitario guidato dalla tenerezza che venticinque anni di ricerca artistica sanno lentamente restituire. Tenerezza e ammirazione per il lavoro degli altri, comunque battagliero e tenace nelle volte che predilige l’equilibrio formale e nelle altre che predilige l’eccesso.

Una fotografia è l'incipit di questo festival.
E' tratta di uno scatto dalla serie City of Shadow (1992-1994) di Alexey Titarenko, l'artista russo nato nel 1962 che con sensibilità sismografica guarda l'Europa dai margini. Ricorda un po' la descrizione che di Venezia fa Josif Brodskij in “Fondamenta degli Incurabili” questa San Pietroburgo di Titenko, tutta rappresa ed espansa in vapore e Tempo. Questa è la porta d'ingresso alla trentanovesima edizione di Santarcangelo Festival, tra torpore, presagio, risveglio, il suo biglietto da visita.
Entriamo.



Masque, Celletta Zampeschi, La macchina di Kafka
Lo spazio è ricco di una presenza immobile.
Sul corpo sventrato di un pianoforte, la tavola armonica è zona di reclusione per l'interprete. Letto, prigione. Cella, appunto. Poi il suono si genera dal movimento di Eleonora - lei che qui è femmina e bestia - con movimento scattante e composto che scopriremo di natura elementare, binario.
Parte dalle lettura che di Kafka fa Deleuze questo appunto scenico di Masque. Ruota intorno all'idea ed alla possibilità di autogenerazione del suono. Qui il tragico accoglie il corpo anche ludico della scena. Masque si dimostra – dopo un lungo tenace rigoroso cammino – finalmente capace di varcare la soglia della leggerezza.
Sigilla questa leggerezza l'utilizzo dell'interattività piegata al dire drammaturgico ma capace di levità.
Ludico è un termine che a Lorenzo Bazzocchi non piace, ma è un termine che se usato con pudore mostra la consapevolezza di un gioco. Deleuze ci ha insegnato il rapporto di fluidità tra coppie di opposti, spazio liscio e striato, nomade e sedentario, corpo e macchina. Masque ne eredita la circolarità semiotica, la macchina scrive sul corpo che riscrive sulla macchina. A me viene alla mente quello splendido frammento da Corpus di Jean-Luc Nancy che nel tempo di radicali rotture e ricominciamenti – fallimenti, appunto – mi è già stato guida: "Non sappiamo quali “scritture” o quali “escrizioni” verranno da questi luoghi. Quali diagrammi, quali reticoli, quali innesti topologici, quali geografie delle moltitudini. È venuto il tempo di scrivere e di pensare questo corpo nella lontananza infinita che lo fa nostro, che ce lo fa venire da lontano, da più lontano di tutti i nostri pensieri: il corpo esposto alla popolazione del mondo."

Ma dietro.
Dietro Celletta Zampeschi in una sorta di belvedere che scruta il paese a Nord Est fino alla piazza. Qui il vento di mare trasporta, nel tardo pomeriggio, con chiarezza di contorno il suono delle prove per il concerto serale di Arto Lindsay, in piazza Ganganelli. 36 Years in 1 Night.
E' un tappeto di chitarre ed elettronica, riff puntuale e puntiglioso che crea poche melodie, ma forme.
Traiettorie, onde, sfere che il suono ci fa percorrere e striare. Una parola non basta ce ne vogliono due, ma oltre le due la frase sarebbe abbondanza e non necessità.
Eccole allora le due parole per dire il sentire profondo di questo ascolto: quiete e bellezza.
Definire quiete il groove ritmico delle corde di Arto Lindsay, delle percussioni e dell'elettronica, sembrerebbe fuori luogo. Ebbene è nel fuori luogo che dobbiamo sostare.
Il concerto di Arto Lindsay occupa l'aperto circoscritto della piazza e lo strato aereo del paese di Santarcangelo. Un'istallazione cantieristica di quattro torri di tubi innocenti, impianti di amplificazione disposti a diversi piani di altezza, subwoofer a terra e l'esperienza da fare è quella del cammino. La sera, intorno alle 23, occorre farsi scuotere dalla pianta dei piedi alla pancia, oltre il centro e il perimetro della piazza prendere il largo dal baricentro corporeo, muoversi tra gli spettacoli che animano ancora le strade secondarie, lì dove il suono decanta in lontananze. Oltre il quartiere sonico l'onda sonora è contagio, osmosi. Pulito dall'ansietà del beat adatta il ritmo alla durata. Per questo sentiamo la quieta bellezza, perché pur nell'energia e nel volume mai il suono è toccato dall'isteria del compiacimento.

Forse perché questo ritmo mi ha a lungo attraversata, forse perché qui c'è una delle mie sincere e spontanee nature artistiche, forse perché su torri simili anche io sono stata, sospesa a cinque metri di altezza sulla Rathaus di Linz ed era il 1997; o nell'esperienza estrema dell'ascolto realizzata con Klangpark, alle spalle della Brucknerhaus e sulle sponde del Danubio. Era ancora Linz, ancora Ars Electronica, era il 2002.
E proprio con Ars Electronica è il paragone piu' immediato che mi viene da fare. Strano, in effetti, perché qui siamo nelle forme di una ricerca che anche quando sposta l'epicentro sul suono si definisce ancora teatrale, là siamo nell'elaborazione di un pensiero sull'arte che ha superato da qualche decennio il confine delle discipline e crea impasto di beat emozionali ed elettronici nella devianza dai centri, bensì nell’impasto di ricerca scientifica artistica, musicale, sociale.
Ma non è un caso, considerato che giunge dal Giappone passando proprio da Linz – dove nel 2007 riceve la menzione speciale del premio “Ars Electronica Interactive Art” – il lavoro di Yoshimasa Kato e Yuichi Ito, giovani studenti della Chukyo University Media Science che a Santarcangelo hanno presentano White Lives on a speaker. Si entra in una delle grotte tufacee che innervano il sottosuolo di Santarcangelo, qui siamo nella Grotta Pubblica. A riempire la circonferenza di un subwoofer un amido bianco prende forma, si compone e scompone, si raddensa in figurine animate simili a manga, si rifluidifica e si ricompone in una danza di figure polimorfe. Il tutto accade sotto la sollecitazione di più input sonori che percuotono la cassa e si rifrangono nello spazio. Complice, un dito. Un performer infatti agisce sul suono, l’altro agisce sulla sostanza bianca al suo stato semisolido, attraversandola e spezzandola con un dito. Un esperimento di fisica e di chimica del suono, stupefacente e affascinante anche per le dinamiche figurative che contiene. La fantasia corre a rivedere quelle forme in certi corti di animazione ma ancor più nelle forme avvolgenti e dinamiche di Henry Moore.

Ma, dicevo, è nel fuori luogo che dobbiamo stare.
Fuori luogo non solo perché il suono interroga lo spazio. Geografie e soundscapes ne fluidificano la materia.
Fuori luogo anche perché il teatro interroga altri formati e si fa teoria della comparazione. Con la musica, si certo, ma anche con l'architettura, l'urbanistica, il paesaggio.
Poi è nel fuori tempo. Nel fuori tempo perché questo è un festival di eventi nuovi per la Romagna, ma noti a quella gran parte di mondo (geografico e artistico) che sperimenta, che ha deciso di stare fuori dagli steccati dei generi e dalle parrocchie della critica. Sì perché ciò che a Santarcangelo arriva oggi (ed è bello che arrivi) come avanguardia, in effetti è già storia. Storia dell'Arte.
Nuovo e vecchio non sono – ovviamente – di per sé un sistema di valori e non li utilizzo in tal senso, ma è bene che queste due disposizioni del sentire non manchino l'oggetto della loro percezione.

Questo festival ha dunque un merito storico, quello di estrapolare dalla linea temporale dell'arte alcune esperienze fondanti degli anni settanta e ottanta del Novecento, in parte radicate in Europa e nelle Americhe, e collocarle qui, in terra di Romagna. Come Arto Lindsay. Pensiamo a Alvin Lucier, l’artista che ha trasformato la parola in suono attraverso lo spazio, che ripropone a trentanove anni di distanza dalla prima rappresentazione al Guggenheim Museum di New York, il suo I Am sitting in a room per il pubblico del festival. O a Lawrence D. “Butch” Morris, a Phil Minton, Heiner Goebbels presente con la conferenza intorno al concetto di “dramma” che investe la percezione. Di Heiner Goebbels voglio però anche ricordare la sua presenza a Rimini in più occasioni. Per me che l'ho curata è un piacere ricordare l'edizione di L'arte dell'Ascolto-Lada97, dove Geobbels presentò "Schwarz auf Weiss", su testo di Heiner Mueller, Edgar Allen Poe, Maurice Blanchot. Già quello un lavoro di contagio tra teatro e musica in piena tradizione tedesca che chiama il genere Musiktheater.
Viene infatti spontaneo in questo festival ripercorrere alcune tappe del cosiddetto “teatro musicale” e della “sound-art” sviluppatasi nel formidabile trentennio di sperimentazione che ha preceduto questo secolo.

Ecco allora che Santarcangelo 39 può essere vissuta come una bella e affascinante tavola pedagogica.
Infatti.
Il grande merito di questo festival è quello di colmare un vuoto di conoscenza per più generazioni e di essere quindi, anche, progetto di insegnamento. Del suono e di altri accadimenti.
Penso ai workshop di lavoro collettivo che hanno preceduto i lavori di Phil Minton e Butch Morris, ma anche alla lezione pubblica di disegno tenuta in piazza Ganganelli da Stefano Ricci, alla conferenza di Goebbels, agli incontri pomeridiani, agli ascolti dei radiodrammi. Quasi un programma scolastico.
Lo dico con ammirazione poiché così credo possano muoversi i percorsi educativi nelle Accademie di Belle Arti, nelle Università, nei conservatori: dare corpo ad una didattica che si fa evento.

Fanny & Alexander, Spazio Musas. +/-
Si legge nel programma di sala che si tratta di "un interrogativo sulla sorgente drammaturgica del suono: è possibile esplorare un luogo e trascriverne la risposta sonora? Date due stanze, più o meno superposte, Fanny & Alexander usa il soffitto-pavimento come un nuovo strumento musicale che si ascolta dal basso verso l’alto (e viceversa)".
Ci annunciano un evento distribuito su due piani di uno stesso edificio, due eventi sonori simultanei affidati all'elaborazione di due compositori, Mirto Baliani e Luigi Ceccarelli. A metà evento usciremo quindi da quella che per noi è la prima sala, per sostare in una seconda stanza perfettamente sottostante alla prima. Lo stesso percorso ma inverso verrà fatto dal secondo gruppo di pubblico, poiché la percezione di questo evento si completa soltanto con lo spostamento fisico.
Si tratta di fatto di due brevi cicli di ascolto, concepiti per essere uno la conseguenza dell'altro. Nella stanza al piano di sopra ci accoglie la bella scena di assi rialzate del pavimento di legno. Ci sediamo a terra lungo il perimetro della sala. Lo spazio è usato in maniera quasi piana, bidimensionale. Sarà il suono a darle volume. Le assi rialzare del pavimento funzionano come tasti di una grande tastiera che agisce come mantice, per fare di entrambi gli spazi due ambienti complementari e risonanti.
Al piano di sopra il movimento dell'interprete è per lo più percussivo, il corpo interdetto alla parola svolge la didascalia di movimento/suono. Al piano di sotto la stanza è più piccola, perfino claustrofobica. L'azione al piano di sopra decanta qui sotto in lamento vocale e pre-verbale. L'evento pare tuttavia circoscritto e concluso dentro l'ipotesi di una macchineria teatrale che si dimostra, ma non si svolge.

Riprende dal mito l'idea del vortice, che qui si esprime nel movimento rotatorio di una pattinatrice in una stanza buia, questa Gorgone dalla compagnia ravennate Orthographe. Presentato al Teatrino della Collegiata, si tratta per ora di un'idea. Occorre attenderne gli sviluppi.

"Slaughterhause è un dispositivo proiettivo sinestetico che attraverso la stereoscopia conferisce all'immagine le qualità del basso rilievo ed opera una viva alterazione della modalità di svelamento e d'apparizione della stessa. L'immagine di Slaughterhouse si realizza in una teoria di visioni eterogenee, è metafora, è oggetto di non consolazione". Lo scrive la compagnia Zapruder filmmakersgroup nel programma di sala.
Ed è vero. Ma con Slaughterhause non siamo nel vero, siamo nell’ipervero. Nell’ipereale. E come ogni iper, scandaglia i vuoti e i pieni dell’esistenza; Zapruder lo fa disponendo i personaggi-figure retoriche del vuoto e del pieno, su piani di vicinanza e di lontananza nella cornice cinematografica. Gioca con l'illusorio questo lavoro di Zapruder filmmakersgroup, presentato al Teatro Supercinema, ma su piccolo schermo. Come nella tradizione della tecnica stereoscopia, con la mediazione di occhialini 3D lo schermo acquista la terza dimensione e si fa spazio drammatico. L'illusione stereoscopica è il linguaggio scelto per dire, con sentore Lynchiano, di un'altra illusione, quella del quotidiano borghese e matematicamente normato.

Prevalentemente ludica l’operazione di Felix Thorn, giovane artista e musicista londinese che nel monolocale soppalcato di stile marinaresco di Via Zuppa mette in azione la sua Felix Machines, orchestra di sculture sonore.
Si tratta in gran parte di tastiere e di meccaniche del pianoforte, delle quali a lui interessa mostrare piuttosto che celare il movimento interno. Ce le presenta rese scultoree da innesti con molli, candelabri, parti di orologi, il tutto acquista un sapore retrò da bottega del rigattiere ma attraversata da un sapere sensibile e tecnologico che mette in ordine il caos e ne fa un momento felice di musica.

Scendiamo ancora nelle grotte per quello che per chi scrive è stato l’evento conclusivo di questo festival. Siamo in fila per una replica di Oh Hook di Teho Teardo all’interno della Grotta Teodorani, momento di puro rapimento che chi ha sperimentato una volta tende a ripetere.
A pochi giorni dalla partecipazione al festival “Assalti al Cuore” di Rimini, dove al Lapidario romano del Museo della Città, insieme all'attore Elio Germano aveva ripercorso alcuni frammenti di “Viaggio al termine della notte” di Celine, Teardo torna in Romagna con questo concerto tellurico.
Dalle note del programma di sala: “In questa azione il musicista Teho Teardo prende in mano la musica come un oggetto tridimensionale, quindi lo lancia contro una parete, con un impatto simile a quello di un proiettile. Teardo ha bisogno di vedere il suono, ed è sistemato come uno che spara in un poligono di tiro. Ma i getti di suono, quando raggiungono la parete, subito si trasformano in lingue che divampano indietro e si infilano nella chitarra baritona che il musicista impugna. Lo strumento diventa così un imbuto di suoni sorprendenti come l’eco dell’orecchio di Dioniso a Siracusa.”
Per il pubblico, un’esperienza dell’ascolto da fare ad occhi chiusi, perché al buio torna a farsi primitiva, magica, l’esperienza del vedere.

 


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Copyright in Italy and abroad is held by the publisher Edizioni De Dieux or by freelance contributors. Edizioni De Dieux does not necessarily share the views expressed from respective contributors.

Bibliography, links, notes:

Pen: Isabella Bordoni
English Abstract: Nicoleugenia Prezzavento
Link: www.santarcangelofestival.com/

 

 

 
 
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