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Theatre - Theatre Festivals - Interview | by SuccoAcido in Theatre - Theatre Festivals on 01/09/2004 - Comments (0)
 
 
 
Spina Festival... e scritti de La Nuova Complesso Camerata

Spina è un’associazione culturale fondata nel febbraio 2004 per dedicarsi ad un lavoro di riflessione, elaborazione dell’arte visiva e del diretto riferimento al contesto sociale nel quale è inserita. Opera per rinnovare il senso del luogo verso il teatro come strumento di comunicazione, di mantenimento della memoria e di invenzione del possibile. E’ interessata alla diffusione del pensiero e della pratica artistica, non legati alla logica del consumo ma ad una istanza originale e contemporanea di espressione libera. Si occupa di studio, documentazione, ricerca e produzione nell’ambito del teatro,della danza, del cinema e del video, della drammaturgia, della musica, delle arti figurative.

 
 

Spina: tre giorni di un piccolo festival che si è presentato a Comacchio il 24 25 26 settembre 2004.

Nulla di particolarmente anticonvenzionale : si accoglieva il pubblico per fargli assistere a pièce teatrali in pubbliche sale, altre sale e luoghi urbani ospitavano opere d’arte visiva, in un non lontano agriturismo erano aperti i lavori di un seminario di fotografia, già da un paio di settimane una compagnia teatrale era presente per chiudere il ciclo di prove ed arrivare al debutto dello spettacolo.

Non credo di aver voglia di andar a cercare in cosa il nostro Spina differisca dalle mille proposte analoghe distribuite lungo la penisola durante la bella stagione. Spina è come tutte le altre (tutta Italia è piena di giovani di buona cultura e di gusti fini, che amano le cose vere ed i rapporti schietti, che perseguono un lavoro artistico o vi si sono cimentati, che provano il desiderio di dare ordine alla propria esperienza e quindi di creare un evento in cui ricomporre le tessere del loro mosaico e, quindi in definitiva, trovano energie e fondi per chiamare nel loro luogo amici di cui rispettano il lavoro, amici che possono aiutare nell’organizzazione, spettacoli ed eventi che trovano particolarmente interessanti ed importanti da condividere).

Spina : perché questo nome ? In senso letterale, Spina è il nome della città che è qui sepolta : dopo essere stata a lungo considerata un’esistenza mitica, l’antico porto greco-etrusco di Spina fu scoperto negli anni ’70 del ‘900. Questo ha portato una piccola rivoluzione nel territorio di Comacchio, l’effetto forse meno sostanziale ma più visibile è che una parte rilevante delle attività che qui si svolgono portano questo nome (un paese di villette, tanti bar, ristoranti, agenzie di viaggio, scuole guida, circoli ricreativi e culturali, stabilimenti balneari…). Molto semplicemente, noi abbiamo scelto il nome più banale da dare ad una cosa da queste parti.
A noi interessa contrastare la mania attuale che porta a volere identificare la tipicità ed il presunto vero sapore di ogni luogo, non fosse che per il semplice motivo che questo fare avviene non spesso ma sempre in un lezzo di necrosi. Non siamo certo partiti per un lavoro sul territorio con la volontà di dargli risalto: il luogo va piegato fino a mettersi in ginocchio di fronte all’opera. E’ ovvio che l’opera appare in un contesto spaziale e — meno ovvio — non esiste un luogo neutro. Tra il luogo e l’opera c’è sempre un agone. E’ intellettualmente disonesto proporre l’opera in quanto tributo o complemento da offrire all’architettura che la alberga.

Non so se queste considerazioni possano valere ovunque, ma qui dove lavoriamo noi (delta del Po emiliano, territori della bonifica) le cose stanno prendendo una piega grottesca: come le lapidi portano il nome di un sepolto; sorgono bestiacce di cemento e vetro che si chiamano come quello che hanno sostituito (e se ne fregiano: dov’erano le dune troviamo il ristorante Le Dune, cosi’ via per i pioppi, i pini, le valli, il martin pescatore) e gli stessi operatori del turismo naturalistico invitano ad un viaggio paradossale nell’ambiente ripristinato artificialmente. Scegliere un nome che indica una città che non è più, per noi, significa giocare sulla malìa delle parole che ci aiuta a decadere come stiamo facendo.

Lo facciamo in modo ambiguo. E’ comunque proprio del teatro essere vago, raggirare, prendere per il naso. No?

Una ragione analoga ci spinge ad essere stanziali.

L’Italia soffre di spostamenti. La circolazione massiccia delle merci, l’appello al mondo intero a fin ché la venga a visitare, la protezione dei prodotti tipici ed i marchi di origine controllata che fanno muovere la gente per andare ad assaggiare gusti e profumi di ogni terra, di ogni angolo di terra, del più secreto cantone.La buffa pretesa di spacciare tutto questo per una difesa della natura! L’Italia è un enorme sistema di paraventi che permettono la visuale su quel che resta di quel che era e tolgono alla vista il non pittoresco. Le persone che hanno da spendere sono spinte a muoversi lungo lo stivale come cavalli all’ippodromo.

Ogni cosa che puo’ contribuire a dare risalto ad un luogo, che gli conferisce peculiarità e che aiuta a considerare normalmente gradevole recarvisi, è bene accetta.

Servendo questa precisa comanda delle municipalità interessate ai proventi dell’industria dell’edonismo (tutte, oggi), si può aver da lavorare. Ed eccoci a baciare come Giuda.

Ma qual’è il nostro lavoro?
Penso che ci stiamo facendo un mestiere nel disarmare il numero e, di qui, il tempo.
Il nodo centrale è il senso del tempo: alla forma teatrale vengono vieppiù dettate delle esigenze di durata e ritmo che sempre meno hanno a che fare con l’artigianato della scena e sempre più si conformano ad esigenze produttive e distributive. Questa considerazione ha dei risvolti polemici sulle attuali politiche dello spettacolo dal vivo, se si vuole (ma noi non vogliamo).

Stiamo lavorando per aprire un luogo di lavoro libero da pressioni produttive. Non abbiamo angoscie di dimensione: cerchiamo soprattutto nell'incontro con il pubblico e nel rapporto con l'istituzione di creare le condizioni per piegare il tempo alla necessità di trovare ogni volta la giusta forma per la cosa da dire, come la chiamò Vittorini.

E’ questione di sapersi focalizzare e, prima ancora, è questione di essere lucidi. Permettere alla mente di dissolvere il concetto di tempo comporta l’averne affinata la percezione, averlo sentito con dolore, mi viene da dire. Credo che ogni opera non abbia solamente una durata ma anche un’estensione di riverbero che va considerata quando si propone allo spettatore.Questa non è quantificabile, ma si può avvertire, intuire sensibilmente come intuiamo l’impressione che può dare una certa luce sulla pellicola fotografica.

Ed è così, come rabdomanti idioti, che ci muoviamo per il nostro paese contando e ricontando quello che abbiamo nelle tasche ed in memoria, preparandoci al cospetto dell’opera ed al giudizio che essa darà di noi (chi è che pensa di poter giudicare un opera e non pensa che possa avvenire il contrario?). Immane, devastante anche, l’arte che accogliamo ci rende fedeli attraverso il suo carisma; noi la lasciamo entrare consapevoli che viene comunque e sempre con il suo scopo: demolire.

Forse per questo mentre aprivamo le porte ci ha salutato il vento più forte che abbia mai scosso i nostri argini.

L’associazione culturale Spina ha organizzato una spettacolare manifestazione di arte visiva ed azione teatrale dove gli organizzatori sono riusciti, grazie alla loro passione per la cultura viva come una fiamma, a creare in Comacchio una festa dell’arte. Per tre giorni le arti si sono vicendevolmente contaminate, diverse scuole di teatro, canto, installazioni scultoree, fotografie, ballo, sono scese dentro i palazzi, nelle strade, sui ponti, tra i pescatori intrecciandosi. Tutto questo si esponeva dentro un organismo, che si costruiva e decostruiva per ricrearsi in altre sedi, dalle seggiole itineranti dei ballerini agli spazi teatrali legati ai cambiamenti climatici a installazioni che si componevano durante e si esponevano a festival finito. Chiunque poteva partecipare a questa enorme macchina creativa come spettatore o partecipante a laboratori di fotografia, teatro e musica, ma anche brindando assieme ai festanti con l’ottimo vino "il volo del porco" mai fatto mancare dall’organizzazione.

Cosa volere di più?
Una pioggia d’oro e molti gnomi curiosi

Il preludio per il prossimo anno?
L’estensione di ogni disciplina

Pen: Silvano Voltolina e Marco Galafassi



Nuova Complesso Camerata

Scritti de La Nuova Complesso Camerata sui perché del loro lavoro e sul tempo trascorso a Porto Garibaldi (il luogo dove hanno risieduto e provato per due settimane prima del debutto, è una frazione di Comacchio).

La Storia vista dai confini, dai bordi. Là dove il colore stinge e si sfa.

La storia è il racconto tra due grandi eventi, è quella pausa lì. Tra un ‘dopo’ e un ‘prima’ che ci lasciarono mutati, esterrefatti.

Dopo la Grande Guerra, al ritorno, in paese -in Sardegna- la miseria cominciò a chiamarsi così: le cose presero un altro colore, cambiarono i nomi, e con i nomi le cose: cambiò il modo di bere, di mangiare, la povertà non fu più quella, cambiò il modo di lavorare, cambiò il senso del valore, della ‘balentìa’.

Dopo la guerra si cominciò a chiamare ‘coraggio’ e ‘alto senso della patria’ il fatto che migliaia di ragazzi si buttassero contro il fuoco nemico di trincea, di corsa -non lo si è mai chiamato ‘inganno’, ‘inutile sacrificio’, ‘macello’.

E adesso ci illudiamo d’essere tutti ‘presenti’, e non riusciamo a tenere su la testa nemmeno alla metà della seconda ora, nell’attesa sfinita che la campana suoni la ricreazione, una volta per tutti.

Po cantu Biddanoa (t.l.: Per quanto Biddanoa) è un capolavoro della letteratura sarda.

Pubblicato nel 1987, sta per essere riedito dalla casa editrice Ilisso (NU).

Romanzo trascurato, romanzo ritrovato. Trascurato perché scomodo, perché in salita. Anticlericale, anti sabaudo, anti governativo, anti fascista, e dunque ancor di più, oggi, anti governativo -proprio perché allora il suo autore aderì a quel fascismo ‘festoso’ e ‘guerrafondaio’ come quello di oggi, per divenire poi ‘anti’, con cognizione di causa.

Libro scomodo, perché poetico, fortemente poetico, e dunque quasi illeggibile, un ‘guerra e pace’ nostrano -o semplicemente ‘loro’- che tutti dicono d’aver letto e pochi sono quelli che in effetti…, e tra questi ‘pochi’, pochissimi quelli che l’hanno letto nella sua (loro) lingua originale.

Perché, tra l’altro, Po cantu Biddanoa è scritto in due lingue, scritto in sardo e riscritto in italiano. E anche questo è un peccato per gli uni e per gli altri. Perché va bene liberare una lingua… Ma due!

Po cantu Biddanoa è un’epopea sarda, è la storia di una colonizzazione -quella piemontese italica-finita, sfinita, con tratti carnevaleschi, grotteschi, che fa pensare a Ensor, ma anche a Biasi: qualcosa di molto lontano dalla carta musica, dal filu ‘e ferru, e dal porceddu…

In Po cantu Biddanoa ci sono l’ironia e la sessualità, due tratti rimossi, forclusi, dalle successive dominazioni -la chiesa cattolica e casa savoia- mandanti e mandatari, a seconda dei casi che barattarono questi due caratteri con il tratto servile dell’ospitalità, la ‘grande ospitalità sarda’, che in realtà è una balla bella e buona, e che serviva a far star buoni e basta.

Basta. Oppure no.

Po cantu Biddanoa è il Novecento sardo, è il superamento del Cent’anni di solitudine latino-americano. In Po cantu Biddanoa ci sono dentro anche i Diari di Falco Marin (figlio di Biagio, uno dei più autorevoli critici-sostenitori di Lobina in suolo nazionale), c’è la ricerca linguistica di Pasolini, l’amore per una terra d’appartenenza ormai lontana, e, ancora, c’è la poesia di Tarkovski -per quanto poi riguarda la Johannes Passion abbiamo accettato di portare quella croce, e Oreste e gli altri sanno cosa intendiamo.

Nel nostro Pàssanta c’è l’inizio del lavoro di Kudelka, e le pietre e la terra della scultura di Pinuccio Sciola. C’è la voglia di dare parola, di dare racconto, a una terra che paradossalmente racconto non ha -se non quelle storie di mostri e diavoli usate per far star zitti, per far chiudere le porte e le finestre.

E tuttavia noi non siamo quelli che danno la parola, noi la parliamo semplicemente. Così come non tutti noi siamo di quella terra, ma quella terra lavoriamo.

Nel nostro Pàssanta c’è la voglia, come ha detto qualcuno, di mettersi attorno a un fuoco e raccontare, raccontare senza fine, a costo di essere anti-spettacolari. C’è la necessità di uscire dalle strettoie dell’oretta, oretta e mezzo massimo e via. Il ritmo è una cosa che viene col tempo.

Nel nostro Pàssanta c’è stata fin dall’inizio la voglia di uscire dal colore locale, perché la Sardegna non è soltanto ballo sardo, berritta e pro loco. Il racconto della storia sarda riguarda gran parte del suolo italico, perché è da qui che è partito tutto, anche se poi qui, da un certo punto in poi, arrivarono soltanto striddìcos, schizzi. Po cantu Biddanoa è l’assemblaggio sapiente e paziente di questi ‘schizzi’, di questi frammenti: Lobina impiegò una vita per scriverli, per ricordarli, immaginarli. Poi li ha riportati sulla terra. Noi abbiamo tentato di leggerli.

Raccogliere qualcosa da terra è sentirlo della terra. Noi abbiamo tentato di trasmettere questo sentimento popolare riversandolo nel racconto di una storia: nulla d’ufficiale, nulla di critico, nulla di solenne.

Forse l’epos di un popolo è la lunga strada che quel popolo deve compiere per riconoscersi in una briciola di mondo, una zolla dove decidere di specchiarsi: una zolla uguale a tutte le altre zolle, ma contrapposta all’infinito del potere che fa apparire tutto locale, clientelare e ridicolo.

Tutto ciò raccontato con incoscienza, se volete, e forse anche da sgrammaticati, cioè senza peso.

Popolari per un non-popolo, impopolari per tutti gli altri.

Pàssanta vuol dire ‘passano’. Passano. Nessuno avrà il tempo di ascoltarli.

Abbiamo preparato quest’opera per gratitudine nei confronti della nostra ‘terra di lavoro’.

Pen: Bruno Venturi

E’ un sospiro il paese se lo guardi dal basso.

E’ un sospiro il racconto della storia di un uomo, di una storia, della storia di vent’anni.

L’uomo, la prima guerra mondiale, l’amore e il ritorno ai ventanni di uomini e donne che hanno fatto la storia della prima metà del novecento. Senza saperlo, senza volerlo.

Tutti chiedono di essere lasciati andare, ma non vanno, aspettano e dormono perché sono legati, legati a quel sospiro che comincia la ritualità di un paesino del centro Sardegna, vicino a un fiume.

E nulla si ripete più. Non è più come una volta stare al mondo.

C’è una sorta di incomprensione per chi è tornato.

Il reduce è innamorato e la sua donna è piena.

Il santo patrono del paese, San Giuliano, è bello, anche lui soldato: da lui va la mamma del soldato che non torna più, e il babbo del soldato che sale a cavallo fin dentro la chiesa per ringraziare . Tutti sono disadattati. E’ cambiato qualcosa, ma nessuno l’ha visto. Finché arriva un maestro non più giovane. E’ lui il cambiamento. Meglio: è lui che traduce e che interpreta il mondo al nostro reduce innamorato e ormai padre, e porta il mondo nel paese. Il paese si apre e si chiude, scivola sul fascismo, si rialza; canta la sua canzone del sonno e il reduce è padre per la seconda volta. Si ribella e lo fa col paese. Ma non capisce più. E’ ormai fuori. Nella piazza intanto si racconta, e sono racconti fantastici, come quelli degli zingari. Come la vita di chi muore abbruttito di fatica nei campi riarsi, e di Antonio Maria Mulas, orco sfortunato e astorico. Ma la vita passa, meglio, scende come un’ombra, e il racconto trova una musica (un quartetto di Gorecki) Adesso l’uomo ha perso i figli, nelle manovre pre-belliche e belliche, di cui tutti continuiamo a vantarci; e allora addormenta la moglie ed esce accompagnato dal quartetto.

Porta un fardello nero, senza peso. La stanchezza di portare è nel racconto. Si prepara a morire come il suo mondo. Da contadino profana i simboli della sua distruzione -una camicia nera, quattro medaglie.

E’ l’alba, e finisce il racconto.

Pen: Oreste Braghieri

Noi siamo abituati a cambiar letto spesso.

La fase finale del nostro lavoro poteva essere ovunque.

Tuttavia la vicinanza dell’amicizia di Silvano e Maud, e di Sergio, Maria ci ha fatto sentire protetti. Lavorare a Porto Garibaldi per noi è stato lavorare al mare. Sì, proprio noi che veniamo dalla Sardegna. Perché in Sardegna al mare vivono soltanto i turisti, la gente no. E allora avere uno spazio così vicino al porto canale, voleva dire sentirne gli odori di pesce, costanti, che arrivavano con le diverse ondate di pescherecci, vivere i ritmi del mercato, i carri di ghiaccio. Porto Garibaldi è un paradiso per il lavoro, durante la settimana. E’ il purgatorio il sabato e la domenica. Il purgatorio deve essere così: mettersi in fila per pescare gli sgombri, con un sacchetto di vermi o di sardine purescie legato alla cinta, e poi passeggiare in mezzo alle carrozzine e alle carrozzelle -mai un cavallo, solo donne dell’est, che badano e spingono. A Porto Garibaldi ci sono molti cani sciolti, come noi. A volte arrivano anche degli uragani. Ecco perché in Sardegna si vive dentro, perché di uragani così se ne sono visti molti… Gli ultimi arrivarono in campo azzurro con una croce rossa al centro. Savoia-troia! I pescatori, quando non pescano, portano zoccoletti col tacco alto in legno. Come noi.

 


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Bibliography, links, notes:

Pen: Silvano Voltolina, Marco Galafassi, Oreste Braghieri e Bruno Venturi.

 
 
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