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Theatre - Theatre Artists & Authors - Interview | by SuccoAcido in Theatre - Theatre Artists & Authors on 01/03/2001 - Comments (0)
 
 
 
Davide Enia

Incontro Davide Enia in Via Bara: pasta al pesto lui, succo d'arancia io. Un amico mi spalleggia elargendomi sorrisi: caffè e scalini del teatro Massimo...

 

 
 

Ho appena il tempo di chiedere: "Davide cosa è lu Tiatru e quale è la sua direzione?" che, scuotendo ogni più piccola particella della spina dorsale inizia a proferir parola...

Davide: Lu Tiatru, è un atto che avviene qui ed ora nell’organismo degli attori di fronte agli altri esseri umani. Oggi, lu Tiatru, riscopre forme della tradizione popolare (nel meridione penso alla tecnica del cunto) e le confronta con nuove esigenze teatrali. Ci si confronta con i classici sotto una spinta autobiografica. Il confronto con i miti lo si vuole superare recuperando miti propri e rapportandoli sulla scena. E’ il bisogno di una mitopoieusi continua dove l’elemento autobiografico è il pilastro della ricerca. Da questo tipo di consapevolezza nasce in me l’esigenza di ricostruire una nuova lingua. La nuova composiziùn delle parole per la stesura di un testo è la mia risposta alle richieste che lu Tiatru pone. L’italiano non mi basta più e neanche il dialetto ma prendo, afferro, tutti quei termini di tutte le lingue e i dialetti a me vicini, significativi nella mia esperienza di vita, e li ricompongo in una nuova forma. E non per fine estetico ma per necessità di trovare una nuova forza comunicativa. Se io dico: “io soi cansado dal troppo dolor, too much dolor, too much, too much” è perché non posso dire in un altro modo, perché questa è l’unica lingua che riesce ad esprimere quello che ho internamente. Fondamentale è per me il métro che le parole hanno all’interno della frase, come se, lo stesso ritmo, il suono che possiedono, riesce a dare il senso di quello che si vuol dire. La parola in sé è svuotata e il puro suono diventa simbolo ed emerge fuori. Tutto è votato alla ricerca di una musicalità assoluta: posso distendere le parole, troncarle, accostare differenti dialetti per creare veri e propri effetti sonori pur restando ferma la necessità di far passare il senso di quello che viene detto.

L: Dalla “solitudine” di Orfeo ed Eurdice all’ultimo studio sulla fiaba e sulla guerra con la presenza di cinque attori: quale è stato il tuo percorso?

D: Il mio approccio con il teatro è stato abbastanza animalesco. Ho iniziato a raccontare d’istinto la storia di Orfeo ed Euridice e quella di Colapesce prima a me stesso poi a Gianfranco Maniscalco con cui collaboro da molto tempo. Ne è nata una narrazione che ho avuto la fortuna di portare per tutta l’Italia. Il lavoro ha così messo le ali e ha cominciato a farmi delle domande su quello che si narrava e sul come. Nasceva così il bisogno di una costruzione di senso drammaturgico forte atto a ricercare un senso nel reale circostante. Per questo ho attinto volutamente alla mia autobiografia. Poi si è presentata sempre più prepotentemente l’esigenza di aprire il mio lavoro ad altri attori e cosi è nato il primo studio sulla giovinezza” Il Calciatore” fino ad arrivare all’ultimo studio sulla fiaba e sulla guerra dove sono presenti cinque attori. Mi interessa che la loro singola esperienza entri attivamente nel processo creativo. Non parto da un testo già scritto e definito se non come provocazione, per andarci contro per distruggerlo e ricrearlo secondo le necessità che il lavoro pone. Ed è così per ogni singolo strumento del lavoro che utilizziamo. Così per il canto, ad esempio, che nasce da un duro lavoro musicale che esiste non per sottolineare quello che viene detto ma perché è esso stesso parola e tramite necessario in quel momento teatrale. Non è per velleità estetiche che sono presenti nei miei lavori ultimi canti, movimenti danze, nuove espressioni linguistiche; ma è perché, nel duro processo creativo, questi elementi risultano possedere, così composti, una forza espressiva e comunicativa che per noi non può essere altra.

L: In che spazi ti trovi a lavorare solitamente?

D: Attualmente lavoro all’ex monastero di S. Basilio dove degli L.S.U. (lavoratori socialmente utili) hanno messo a disposizione una stanza. Oppure nel garage della zia di Gianfranco Maniscalco. E dire che gli spazi logistici ci sono…ma basta pensare a come vengono gestiti i Cantieri Culturali alla Zisa o il fatto che il teatro Garibaldi è attivo quattro mesi l’anno per capire che è meglio isolarsi e chiedere a privati di sposare la causa. Certo i luoghi di lavoro sono garage, gallerie d’arte, cucine di ristoranti. Ho sempre lavorato così: mi sono sbattuto e alla fine un posto l’ho trovato. Sono un fortunato. Quello che mi preoccupa adesso è che per riuscire a gestire un lavoro ad ampio respiro e a lungo termine probabilmente sarò costretto ad andarmene da qui. Mancano le condizioni per far circuitare i lavori quindi non vi è possibilità di un rientro economico per mandare avanti un qualsiasi progetto di ricerca a lungo termine. Si deve andare dove questo è possibile: si emigra.

Le domande sono finite. A registratore spento gli chiedo come va il suo lavoro per Premio Scenario... bene, ma è incazzato perché L’E.T.I. manca in Sicilia ed è dovuto andare fino a Padova a presentare la videocassetta. Ci salutiamo e gli auguro in boccaallupo.

 

 


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Reg. Court of Palermo (Italy) n°21, 19.10.2001
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pen: Laura Peduzzo

 
 
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